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mercoledì 16 marzo 2016

RèG 2. TUMÀN



testo e foto di ©  2016 Stefano di Stasio

Tumàn. Nebbia. Stava appollaiato su un abete rosso della foresta. Era l’alba di un giorno freddo. Dall’alto poteva vedere i fasci di luce obliqua che diffondevano fra i banchi di minuscole goccioline. Abbagliavano la vista. Sua madre l’aveva chiamato Tumàn perché quando si erano aperti i suoi occhi a un mese dalla nascita era rimasta colpita da un velo sottile biancastro che copriva l’iride a losanga di colore celeste. Adesso intorno a lui il bosco ancora taceva avvolto dall’ovatta.
L’autunno volgeva al termine, presto sarebbe caduta la neve. In lontananza udì dei suoni bassi. Provenivano dalla terra. Erano i daini che cominciavano a brucare l’erba delle radure. Era l’ora di cominciare la caccia. Saltò giù dall’abete, per un attimo sembrò volteggiare nell’aria e rimanere sospeso sullo strato di nebbia. L’impatto col terreno non produsse nessun rumore percepibile. Cominciò ad attraversare la foresta in direzione della preda. Le orecchie si muovevano girando a semicerchio. Stava in guardia per i cercatori di funghi. Spesso portavano con se il fucile. Tumàn procedette guardingo evitando le piste battute e i terreni non coperti di alberi. Arrivò in prossimità della radura. Di la’ dalla nebbia, coperto dai cespugli, scorse quattro piccoli daini, un maschio e tre femmine. Strappavano l’erba a piccoli morsi.  Studio’ il terreno e scelse la preda, la femmina più giovane. Muovendo le sue zampe larghe e coperte di pelo descrisse un movimento a forma di elle per raggiungere l’albero al confine settentrionale della radura. Dopo aver brucato l’erba i daini si sarebbero spostato in cerca di acqua. Tumàn sapeva che a nord dietro quella collina a forma di panettone, c’era una sorgente. Anche i daini lo sapevano. Con un balzo fulmineo raggiunse i primi rami del grosso ippocastano. Scelse il ramo più sporgente. Lo percorse quasi fino all’estremità. Si accovacciò e attese. I daini terminarono il pasto. Il maschio ebbe qualche esitazione, poi si mise in marcia verso la sorgente. Non c’era niente da temere. Il sole stava diradando velocemente la nebbia. I daini potevano vedere lontano. Sfilarono ai margini della radura mentre le residue gocce d’acqua nell’aria facevano una specie di aura attorno alle loro sagome. Come un fulmine Tumàn si lanciò dal ramo sulla preda. L’addentò al collo con i lunghi canini. Una scena grandiosa di vita e di morte nella luce abbagliante del riverbero del sole sull’acqua del prato. Per il giovane daino non ci fu il tempo di reagire. Il cacciatore era venuto dall’alto, al di sopra degli strati di nebbia, dove mai un daino avrebbe annusato l’aria per avvertire il pericolo. Gli altri daini fuggirono via. Per Tumàn questa era solo la prima parte del suo lavoro. Dopo aver finito la preda, doveva scegliere un posto per nasconderla. Sarebbe tornato a sfamarsi ogni giorno, con calma. Trascinò il daino per un centinaio di metri. C’erano tre betulle che si intrecciavano vicino a una piccola scarpata. Quello era il posto buono per fare da dispensa. Facendo forza sui suoi possenti arti posteriori, il cacciatore prima balzò, poi con i denti sollevò e tirò.  Poi di nuovo, saltò e di nuovo tirò per raggiungere quella specie di piattaforma naturale. Era soddisfatto, sistemo’ il daino ben fermo. Fece colazione con la carne di un cosciotto. Si riposò. Aspettò finché il sole si fece troppo caldo per lui. Allora strappo’ delle frasche dagli alberi e copri’ con estrema accuratezza la preda. Sarebbe tornato la notte successiva.
Un balzo e sparì nella zona d’ombra della macchia.
Trascorse il giorno. Il sole cadde con enfasi dietro la collina a ovest, quella a forma di pino. Dalla direzione opposta del cielo comparve sbiadito uno spicchio di luna. Tumàn aveva passato il giorno a sonnecchiare. Fra i canti degli uccelli che  cercano compagnia prima di dormire, l’oscurità calò lentamente sulla foresta e sui suoi abitanti facendo svanire piano piano i contorni degli arbusti e dei tronchi. Si avvicinava l’ora di mettersi in marcia. I suoi occhi vedevano meglio  al buio.
Si leccò la pelliccia. Annusò l’aria. Drizzò le orecchie con i ciuffi e si mise in marcia, camminando sul nulla senza rumore. Inaspettato sentì l’odore della femmina. Si chiese chi fosse, nel suo territorio ce n’erano molte. Incuriosito seguì la scia che lasciava quell’inconfondibile estro. La raggiunse. Entrambi emisero gravi miagolii. Si chiamava Ira. Non l’aveva mai vista. Era molto bella. Aveva da poco lasciato i due figli. Quando erano loro cresciuti i canini dopo dieci mesi dal parto, aveva loro insegnato a cacciare. Poi era andata via, era tempo di  accoppiarsi di nuovo.
La notte avvolse la foresta. Si udivano ogni tanto animali notturni. Rapaci. Fra ringhi sommessi, si accese l’amore di Tumàn e Ira. Trascorse così il tempo fino all’alba.
La bruma ancora calava sul bosco. Non tanto fitta come i giorni precedenti. Gli amanti ebbero fame. Si mossero dal loro giaciglio. Tumàn voleva condurre Ira alla sua dispensa sugli alberi di betulla. Attraversarono la radura e si diressero verso la collina là dove c’era la scarpata. Stamattina non incontrarono nessun daino. Anche il corvo che di solito volteggiava in cerca di cibo non c’era. Salirono sulle betulle. Tumàn scostò le frasche che aveva disposto per nascondere il daino e offrì a Ira la sua cacciagione. D’un tratto però avvertì uno strano odore, aspro e penetrante, non era di un animale del bosco. Ma era tardi. D’improvviso una rete calò dall’alto e li intrappolò. Cominciarono a dibattersi emettendo grida acute. Di più la rete avvinghiò la sua preda. Quando il sole fu più alto avvertirono da lontano l’abbaiare dei cani. Di lì a poco poterono vedere degli uomini con la divisa grigio chiara che si arrampicarono sulla collina. Erano le guardie forestali incaricate di sorvegliare quella regione vicina al confine fra cinque stati, dove le foreste dei Carpazi sono più fitte. Tumàn e Ira guardarono con ostilità le guardie che esprimevano la loro soddisfazione. Poi furono fatti entrare in grosse scatole di legno e trasportate a spalla fino alla strada. La puzza dell’aria era per loro insopportabile. Come facevano quelle persone a non sentire quel tanfo nauseabondo e a continuare a far finta di nulla? Le gabbie di legno furono issate su un vecchio camion. Dopo un giorno di viaggio su strade sgangherate arrivarono in un paese dove la puzza odori era più sopportabile. Era fra le colline e la foresta. L’aria aveva un odore salmastro. Truskavetz. Il villaggio del sale. Tumàn e Ira non sapevano che era un centro rinomato da secoli per le cure termali. Così come non sapevano che c’erano una mezza dozzina di palazzoni dove si praticavano cure di ogni tipo che erano chiamati Sanatori. In ogni sanatorio potevano alloggiare fino a mille persone. Era un posto di vacanza premio per i lavoratori di tutta l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Man mano che il camion procedeva nel villaggio osservarono dei grossi edifici bigi a cinque o a nove piani. Fra di essi scappavano e giocavano folle di bambini. L’autista del camion si fermò a comprare le sigarette. Scambiò qualche parola con i passanti mentre fumava soddisfatto del viaggio. In men che non si dica il camion fu preso d’assalto dai bambini che cercavano di vedere fra le fessure delle scatole di legno.  Poi il camion ripartì e si fermò davanti a un grosso Sanatorio. Venne un uomo in camice bianco con due grosse siringhe in mano. Prima Tumàn poi Ira. Furono addormentati. Si risvegliarono dopo un tempo indefinibile. Il sole che tramontava sulle colline gettava intorno a loro un’ombra lunga fatta a piccoli quadri.
Erano stati sistemati in una grossa gabbia nel parco del sanatorio “Carpazi”. All’interno erano stati disposti degli alberi scheletriti e una tana finta. Tumàn cominciò ad esplorare l’ambiente. Non c’erano vie di fuga. La rete era solida. Sul tetto era stata saldata una tettoia. Alla gabbia si accedeva attraverso una cabina fatta di rete di ferro con una doppia porta. Dall’esterno si accedeva all’interno del gabbiotto. Da qui si apriva una porta all’interno della loro prigione. Le porte erano serrate. Niente da fare.
Per tutta la serata Tumàn e Ira si accoccolarono sullo scheletro di pianta e dovettero sopportare i flash dei visitatori.
“Ris. Lynx lynx carpathicus. Lince dei Carpazi. Si stima che siano presenti 2800 esemplari su uno spazio compreso fra Ucraina, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania.” Era scritto in bella mostra su un cartello davanti alla gabbia.
Ogni tanto Tumàn leccava sul muso la compagna su ciuffi di peli ai lati del viso. Cercava di consolarla.
L’indomani conobbero i loro guardiani. Uno era una donna, si chiamava Orissa. L’altro era un uomo, Stepan.Orissa e Stepan erano molto diversi. Tanto odiosa e precisa la prima, quanto simpatico e approssimativo il secondo. Forse era l’alcol che l’uomo beveva quasi in continuazione. Portavano dei pezzi di carne quasi putrida. La donna si introduceva attraverso la porta esterna all’interno della cabina di transito. Poi Stepan chiudeva la porta esterna e Orissa apriva quella interna dalla quale si accedeva all’interno della prigione. Tumàn rizzò i ciuffi di pelo sulle sue orecchie e con calma studiò il da farsi. Venne la mattina del terzo giorno. Cominciava a nevicare. Da lontano Tumàn osservò Orissa e Stepan che si avvicinavano alla gabbia. L’uomo era visibilmente ubriaco, questa volta aveva esagerato con la vodka. La sua collega se ne rendeva conto e ogni tanto lo apostrofava “Vzhe pizno, Stiupka! Pospishay!” cioè “È tardi, Stepan! Sbrigati!” Orissa entrò nel gabbiotto. Tumàn era arrampicato sul tetto, poteva osservare bene la scena. Stepan, barcollando, non aveva richiuso la porta esterna, ma la donna non se ne era resa conto, aveva uno spesso copricapo di lana grezza. Orissa aprì la porta interna e accedette allinterno della gabbia, sporgendosi fuori dalla porta della cabina di transito. Fu un attimo. Tumàn si avventò dall’alto sul collo della donna emettendo urla furibonde. Ira approfittando della situazione sgattaiolò a lato della donna, spinse la porta esterna semiaperta mandando a gambe all’aria Stepan. Poi si fermò per aspettare Tumàn. Ma Orissa era esperta. Con un forcone in mano respinse Tumàn all’interno della gabbia e chiuse la porta fatta di rete metallica. Tumàn guardò Ira. Un attimo bastò piuttosto che per mille parole. Va’ Ira, Va’. Possa lo spirito della foresta accompagnarti nel tuo viaggio. Va’, scappa di là dalle colline. Porta la mia carne, i cuccioli che partorirai là dove ci siamo conosciuti. Dove l’acqua scorre e volteggia il falco, dove regna il silenzio e l’aria profuma di muschio. Abbi cura dei miei figli.
 
 

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