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giovedì 23 gennaio 2014

Intervista a Paolo Pajer, autore di "IL PUNTO ESTREMO"

a cura di Stefano di Stasio






Dalla quarta di copertina:

Tre vite legate fra loro da un corso circolare del tempo. Un libro, scolpito pazientemente con una prosa quasi zen, che racconta della vita e della morte con l'ironia e la curiosità  che ci permettono, giorno dopo giorno, di spingere lo sguardo dietro l'angolo.


Buongiorno Paolo. Comincerei dal titolo: Il Punto Estremo. È un libro interessante perché come si legge dalla quarta di copertina si tratta di un esperimento linguistico oltre che letterario. Lo si potrebbe vedere come una partitura  a tre voci, oppure un monologo a tre voci, oppure una sola voce con tre toni o timbri diversi, Zero, Claudio e Adele. In realtà la percezione è quella di un unico umano dolore.  Perché la scelta del titolo?

Buongiorno a te, Stefano. Il punto estremo rappresenta concettualmente il punto esperienziale più lontano che nella vita possiamo raggiungere, che potrebbe anche coincidere con l’ultimo. Per chi ci crede in questo caso coinciderebbe anche con il primo di un altro tipo di esperienza metafisica e spirituale.
Il punto estremo è anche, simbolicamente, il punto più alto da scalare in una montagna, il punto più lontano dalle cose e dalle persone. Ma è anche il punto più profondo in una disperazione, la soglia ultima del dolore, il confine fra aiuto ed oltraggio, fra pudore e diritto di non esistere.
Attraverso l’esperienza di Adele e Claudio ho cercato di presentare anche questo tipo di punto estremo.
Zero, invece, trova il punto estremo nella sua breve, immatura ed acerba conoscenza del mondo che ha appena sfiorato nei suoi brevi istanti.


Colpisce il lettore la lucidità con cui è stata concepita l’architettura della meta-narrazione. I tre personaggi Zero, Claudio e Adele appaiono e scompaiono ognuno con un tempo proprio di scansione di vita: istanti, ore, giorni. Anche la punteggiatura e le pause sono estremamente “volute e precisate”, come per esempio i punti scanditi come rintocchi di orologio nelle cinque righe finali. Come è nata l’idea di questa “grammatica”?

La storia del libro è particolare. Inizialmente volevo esplorare l’evento-morte, la perdita. Mi affascina perchè non riesco a comprenderne bene la portata assoluta e al tempo stesso sono curioso di scoprirlo. Inoltre è uno dei grandi tabù della società moderna, che si spinge tecnologicamente in prospettive velocissime ed inimmaginabili. La morte è la sconfitta della scienza, ma a volte è solo il trionfo della vita.
Avevo pensato di avvicinare il tema da tre angolazioni distinte ma convergenti: dall’inizio della vita, a metà e alla fine.
Ecco allora la scelta di tre protagonisti: un feto, una donna e un vecchio.
Ho scelto il feto soprattutto perchè rappresenta al meglio il momento assoluto dell’inizio. È un po’ il punto estremo dell’inizio.
Durante la scrittura mi sono accorto che, trattandosi di esperienze soggettive, e nel caso di Zero di un’esperienza totalmente immaginaria, avrei potuto mescolare aspetti quotidiani con elementi temporali diversi, attraverso legami di vario tipo e intervallando il ritmo della narrazione, creando un effetto-palcoscenico che chi lo legge visualizza facilmente.
C’è una specie di ritmica che dirige i tempi in quelle pagine. Come in ogni melodia anche le pause possono essere parte della ritmica. Il gioco dei puntini è, anche graficamente, l’avvicinarsi della conclusione, uno scandire il conto alla rovescia che può essere il battito del cuore, il respiro, la fine del tempo. È venuto un po’ per caso ma risiede nella cura con cui ho cercato di lavorare specialmente ai dettagli di questo piccolo libro.
Ho cercato di usare un numero molto basso di pagine, asciugando quasi all’estremo (ecco un altro punto estremo) la narrazione ed avvicinandomi a volte alla poesia, anche per cercare un effetto contrario alla saturazione che fanno i libri molto lunghi.
Chiedo al lettore di evocare le proprie emozioni per arricchire ciò che legge.
È un senso di perdita anche avere conosciuto solo pochi tratti di Zero, Claudio e Adele.


La foto di copertina e la dedica. Qual è la relazione fra l’altipiano di El Alto con sullo sfondo la Cordillera Real e “a chi resta, a chi resiste, a chi se ne va” ?

La foto è stata scattata in Bolivia a gennaio 2008, in uno dei luoghi più straordinari che abbia mai visto, a suo modo un luogo estremo.
La dedica rappresenta un pensiero a tutti coloro che vivono, suddividendoci in coloro che scelgono di restare, cioè di vivere, in chi cerca di resistere, o chi se ne va, anche per propria decisione.
In questo libro parlo di morte, ma anche di scelte.
La morte può essere una scelta, che alcune persone possono vivere come liberatoria.
In altri casi invece ci si prova, a vivere, affrontando le giornate una per volta. Ecco perché a chi resiste.
Ho cercato di esplorare il dramma interiore di Adele e di Claudio, drammi che credo ogni uomo prima o poi potrebbe sperimentare durante la vita.


L’incipit del lavoro si può pensare coincidere con l’istante 1 di Zero. Personalmente, lo ritengo più una poesia su “l’istante della creazione di un’anima” che una narrazione in prosa. Però citerei la parte finale: “…Non ho sensi per raccogliere qualcosa: sono un filo appena visibile appeso nel buio./ E mi sono appeso nel buio sbagliato. / Che culo”. A parte la forte empatia che nasce spontanea per tanta franchezza, la domanda è: come si combinano casualità, esistenza e volontà?

Non lo so, forse in maniera molto semplice. L’idea di Zero è nata dalla ricerca dell’inizio della vita, altrettanto affascinante e misteriosa come la fine.
Zero, effettivamente, ha dei tratti che non sono propri di un bambino: ha una maturità di pensiero e di emozioni che lo collocano in una fascia di età evidentemente più elevata, ma che forse consente al lettore maggiore empatia.
L’ho “condannato”, collocandolo in un buio sbagliato, cioè in una gravidanza extrauterina che va tolta chirurgicamente e in fretta per evitare la morte della madre.
Al tempo stesso gli ho dato una capacità di pensiero (che lui paradossalmente sa di non poter avere) come regalo estremo per lasciare una traccia flebile nel suo piccolo percorso.


Claudio dice “Quando vali poco sei un peso, non ti importa se la gente ti ride dietro”, ora 1. E ancora, ora 4: “Dovremmo stabilire, ognuno per sé, quale sia il limite fra la vita e l’oltraggio…”. E la condivisione dov’è finita? Dove ce la siamo persa? E la “compassione” per dirla come Ghandi? E la “misericordia” di cristiani e mussulmani?

Ho cercato di esplorare il concetto di compassione visto dal punto di vista del destinatario.
Nessuno di noi si immaginerebbe che l’età avanzata, desiderata perché sinonimo di lunga vita, possa essere invece un epilogo triste, immobilizzati in un letto o su una sedia a rotelle. Mi sono chiesto se chi vive questa condizione, ed ha ancora una relativa lucidità mentale possa rivedere i propri schemi valoriali, le proprie priorità.
Io non so se vorrei restare aggrappato a tutti i costi ad una vita che mi releghi ad essere totalmente passivo. Ma lo penso qui ed ora. Non so cosa penserei se ci fossi veramente in una situazione del genere.
È un pensiero ed un confine che variano nel tempo e da persona a persona, da cultura a cultura.
Allo stesso tempo credo che nessuno possa però imporre la vita ad ogni costo, atteggiamento che alla fine forse ha prodotto il tabù della morte che stiamo vivendo oggi.
È perdita solo la morte o anche una vita che una persona non considera tale?
Io non ho risposte, ho cercato solo di esplorare le domande.


Zero, istante 4. Il pianto della madre, di nuovo una delicata e tenera poesia. Secondo te, solo prima di nascere l’uomo è poeta sul serio?

Se intendiamo per poesia la trasparente ed armonica manifestazione delle proprie emozioni no.
Ma, forse, è solo prima di nascere che l’uomo è incontaminato, quando ha una relazione esclusiva e totale con il luogo (la persona) dove ha avuto inizio. Prima di nascere l’uomo non è contaminato dal mondo. In questo ambito si cela uno dei misteri che l’uomo, inteso come maschio, non potrà capire mai. Io pertanto ho solo provato a immaginare un legame emotivo ed empatico fra madre e figlio che conosciamo in termini biologici, ma che probabilmente esiste anche su altri piani.


Adele si interroga: “Cos’è il tempo per una montagna ?”. Per te Paolo Pajer che cos’è il tempo? E che rapporto hai con le montagne?

Il tempo è una variabile strana: è una certezza, è assoluto, è a prescindere. È l’uomo, come sempre, che lo interpreta, pertanto abbiamo un tempo veloce, un tempo tiranno, un tempo buono e uno cattivo. Un tempo lento. Personalmente credo che il tempo sia un alleato molto forte per i momenti negativi: non può che lavorare a favore.
Il mio rapporto con la montagna è molto profondo. Ho alcune montagne che rappresentano per me il ritorno alle origini, e l’ambiente della montagna, i suoi silenzi che non sono mai silenzi assoluti ma rumori di sottofondo, è la rassicurazione di fronte alle pochezze umane.
La montagna per me è la dimensione della solitudine più proficua, più condivisa.
Adele compie una scelta molto forte, estrema, e sceglie la montagna come ambito dove compierla. La montagna è simbolicamente la mano estrema ed accogliente che la proteggerà, il grembo dove potrà tornare. 


L’introspezione: con le parole di Claudio, ci si chiede come facciano talune persone a vivere una vita intera basandosi su ciò che non vogliono vedere, una vita parallela. Ti chiederei: quanto del coraggio di voler vedere può aiutarci a vivere senza dolore?

La scelta, o la condizione, di vivere vite parallele dove non consideriamo le cose che ci fanno male è proprio una strategia per soffrire meno. A volte il compromesso ha tenuto assieme famiglie per anni, ha permesso di sopravvivere alla solitudine.
Il coraggio di vedere è il coraggio di sapere e di affrontare la sofferenza. Non credo che il coraggio di voler vedere possa far diminuire l’effetto del vedere, forse lo depotenzia.
A volte ci sorprende come le persone siano in grado di vivere due vite parallele, una esteriore e una interiore, e come questo parallelismo riesca a stare in piedi per tanto tempo.
Ma forse è solo una nostra interpretazione, o un limite.


Una domanda a bruciapelo: che cosa dà gioia a Paolo Pajer?

Mi dà gioia sentirmi utile, riconoscermi in un luogo o in persone.
Regalarmi un giorno in montagna, una passeggiata con mia moglie, ma anche lo sguardo di mia figlia quando la sveglio la mattina, la buona impressione che lascia mio figlio sulle persone.
Da un certo punto di vista scrivere mi dà molta gioia, ed è un’attività simile al camminare in montagna.


L’ultima domanda è convenzionale. Me ne scuso ma noblesse oblige: qual è il tuo prossimo “esperimento narrativo”? Vista la riuscita eccezionale del primo, si dovrebbe proseguire. O no?

Nella domanda c’è una considerazione estremamente lusinghiera, della quale ti ringrazio di cuore.
In questo periodo sto scrivendo dei racconti. Trovo che il racconto sia una forma narrativa molto interessante e affine a Il punto estremo, perché permette di tratteggiare in poche righe persone e situazioni, lasciando al lettore il suo spazio vitale.
Non so se riuscirò mai più a fare una cosa complessivamente originale come Il punto estremo, di certo è stato un momento necessario, fortunatamente fatto e che ora, con mia grande soddisfazione, posso annoverare fra le cose buone che sono riuscito a fare.

Grazie e a presto, Stefano.

SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: IL PUNTO ESTREMO
Autore: Paolo Pajer
Editore: Erga
Data di Pubblicazione: Ottobre 2012
ISBN-13: 9788881637355
Pagine: 48 Formato - Prezzo: Brossura, 6,00 Euro


© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 16 e 22 gennaio 2014. Pubblicata su Parole e Fotografie il 24 Gennaio 2014






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