Cerca nel blog

venerdì 9 marzo 2012

Parallele

di Stefano di Stasio

 
La mamma era morta da una settimana. Alfredo Zappelli era figlio di padre ignoto. Lo aveva sempre saputo. Aveva abitato con la madre nel rione popolare della periferia nord. Della sua infanzia non ricordava granché. La scuola elementare era per lui un ricordo sgradevole. Abate, Capotosto, Cellola, Di Matteo, e così via giù andare per altri venticinque nomi finché alla fine, dopo una palpitante attesa, Zappelli. La sua maestra si chiamava Lina era brutta e antipatica e, inoltre, quando si avvicinava aveva l’alito puzzolente.
Per Alfredo la domenica non era mai stata un giorno felice. Il lunedì, tornando a scuola, gli altri bambini di solito raccontavano che erano usciti con il papà, che finalmente avevano avuto modo di giocare con lui che era sempre a lavorare. Mica come durante la settimana quando papà rincasava la sera stracciato dalla fatica e sprofondava sul divano davanti alla televisione pochi minuti prima di addormentarsi. Alfredo no. Il padre non l’aveva mai conosciuto, mamma Adelina, non voleva parlarne. Aveva saputo dallo zio Ernesto che la madre, quando aveva partorito, aveva sedici anni. Poi anche lo zio aveva interrotto il discorso. La mancanza di uno dei genitori gli provocava una difficoltà enorme nel parlare della sua famiglia, in realtà non si trattava nemmeno di una famiglia, lui aveva solo la madre e nemmeno questa era una vera mamma, sempre misteriosa come se volesse nascondere chissà che.

Erano passati trenta anni dal tempo delle elementari. Alfredo era cresciuto e dopo la scuola media aveva fatto pratica da un carrozziere. Aveva imparato bene a lavorare con le lamiere. Mastro Antonio, un vecchio operaio che stava per andare in pensione, gli aveva spiegato tutti i trucchi per saldare, giuntare, ribattere le lamiere contorte delle automobili. Era come una guerra. La crash bar aveva schiantato la barra di protezione della portiera sinistra, investendo il conducente che a sua volta era rimbalzato sul sedile destro mentre la macchina cominciava a fare testa coda ed era finito con la testa del parabrezza.

Quella mattina verso mezzogiorno Alfredo stava facendo colazione con gli altri operai. Dal cancello dell’officina spuntò la parte anteriore di un carro attrezzi. Ci risiamo, pensò Alfredo, eccone un altro. Un grosso suv, una Toyota 4x, con la fiancata completamente accartocciata, stava appollaiato sulla parte posteriore di un carro attrezzi come il cucciolo di uno scimpanzé in groppa alla madre. Dietro al carro, seguiva una vettura, anche quella di lusso, una BMW. Il capofficina uscì dalla rimessa e andò incontro ai nuovi venuti. Alfredo li osservò da lontano parlare.
"Non è stata colpa mia, è uscito un furgone all’improvviso da dietro una fila e mi ha distrutto la fiancata. Bastardo!".
E così via, come al solito. In tanti anni che faceva quel lavoro Alfredo non aveva mai sentito nessuno che ammettesse: "È tutta colpa mia, tutta fottutissima colpa mia. Sono una testa di cazzo, se fossi andato piano avrei evitato l’incidente". Niente da fare. Dalla macchina che seguiva era sceso qualcun altro, forse era un amico del conducente del suv. Aveva l’aria distinta, Alfredo se ne rese conto subito perché indossava uno di quei vestiti di quelle stoffe particolari a righi stretti ma poco vistosi, aveva un foulard nel taschino della giacca e un secondo avvolto sul collo di una camicia aperta bianca. Lo sconosciuto aveva gli occhiali scuri. Era alto come Alfredo, la stessa carnagione. Il fisico però era più gracile del suo. Lo sconosciuto si volse verso Alfredo, lo guardò come un extraterrestre che incontra un uomo, dopo un viaggio fra galassie sperdute di milioni di chilometri. Lo riguardò.
Alfredo non capiva. Cominciò a pensare a bassa voce:
"Cosa vuole questo qua? Bellimbusto, togliti questi occhiali neri, fatti riconoscere. Chi sei? Se sei venuto per prendermi per il culo, guarda che ti spezzo in due!".
Alfredo istintivamente cercò il martello dal lungo manico che usava sempre nel suo lavoro di battilamiera. Lo raccolse e cominciò a battere ritmicamente su un piccolo sgabello di ferro dove si andava a sedere sempre, dopo la pausa di mezzogiorno, per fumare. Picchiava. Lo sconosciuto si avvicinava. Picchiava, ancora. Picchiò più forte.
Il visitatore senza nome si fermò. Si tolse gli occhiali. Alfredo lo fissò per la prima volta in volto. L’espressione, la forma delle sopracciglia, il naso, il collo. Con la mano sporca di vernice si palpò il viso come per sincerarsi di non essere un fantasma. Strizzò gli occhi. Li riaprì. Udì l’uomo di fronte a lui dire qualcosa. Non capì. L’altro ripeté quasi le stesse parole.
Allora, come una forza misteriosa lo sollevasse da terra, Alfredo udì di nuovo la voce di sua madre che gli diceva: "Scusa Alfredo, avevo sedici anni, ero povera, non potevo fare diversamente quando ho partorito due gemelli".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


Nessun commento:

Posta un commento