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martedì 25 ottobre 2011

Tumán

Tumán. Nebbia. Stava appollaiato su un abete rosso della foresta. Era l’alba di un giorno freddo. Dall’alto poteva vedere i fasci di luce obliqua che diffondevano fra i banchi di minuscole goccioline sospese a mezz’aria. Abbagliavano la vista. Sua madre l’aveva chiamato Tumán perché quando si erano aperti i suoi occhi a un mese dalla nascita era rimasta colpita da un velo sottile biancastro che copriva l’iride a losanga di colore celeste. Adesso, intorno a lui, il bosco ancora taceva avvolto dall’ovatta.
L’autunno volgeva al termine, presto sarebbe caduta la neve. In lontananza udì dei suoni bassi. Provenivano dalla terra. Erano i daini che cominciavano a brucare l’erba delle radure. Era l’ora di cominciare la caccia. Saltò giù dall’abete, per un attimo sembrò volteggiare nell’aria e rimanere sospeso sullo strato di nebbia. L’impatto col terreno non produsse nessun rumore percepibile. Cominciò a attraversare la foresta in direzione della preda. Le orecchie si muovevano girando a semicerchio. Stava in guardia per i cercatori di funghi. Spesso portavano con sé il fucile. Tumán procedette guardingo evitando le piste battute e i terreni non coperti di alberi. Arrivò in prossimità della radura. Di là dalla nebbia, coperto dai cespugli, scorse quattro piccoli daini, un maschio e tre femmine. Strappavano l’erba a piccoli morsi. Studiò il terreno e scelse la preda, la femmina più giovane. Muovendo le sue zampe larghe e coperte di pelo descrisse un movimento a forma di elle per raggiungere l’albero al confine settentrionale della radura. Dopo aver brucato l’erba i daini si sarebbero spostati in cerca di acqua. Tumán sapeva che a nord, dietro quella collina a forma di panettone, c’era una sorgente. Anche i daini lo sapevano. Con un balzo fulmineo raggiunse i primi rami del grosso ippocastano. Scelse il ramo più sporgente. Lo percorse quasi fino all’estremità. Si accovacciò e attese. I daini terminarono il pasto. Il maschio ebbe qualche esitazione, poi si mise in marcia verso la sorgente. Non c’era niente da temere. Il sole stava diradando velocemente la nebbia. I daini potevano vedere lontano. Sfilarono ai margini della radura mentre le residue gocce d’acqua nell’aria facevano una specie di aura attorno alle loro sagome. Come un fulmine Tumán si lanciò dal ramo sulla preda. L’addentò al collo con i lunghi canini. Il teatro della natura officiava una scena grandiosa di vita e di morte. Le sagome scure dei contendenti si stagliavano nette nello splendore della luce diffusa dai raggi del sole nascente. Per il giovane daino non ci fu il tempo di reagire. Il cacciatore era venuto dall’alto, al di sopra degli strati di nebbia, dove mai un daino avrebbe annusato l’aria per avvertire il pericolo. Gli altri daini fuggirono via. Per Tumán questa era solo la prima parte del suo lavoro. Dopo aver finito la preda, doveva scegliere un posto per nasconderla. Sarebbe tornato a sfamarsi ogni giorno, con calma. Trascinò il daino per un centinaio di metri. C’erano tre betulle che si intrecciavano vicino a una piccola scarpata. Quello era il posto buono per fare da dispensa. Facendo forza sui suoi possenti arti posteriori, il cacciatore prima balzò, poi con i denti sollevò e tirò. Poi di nuovo, saltò e di nuovo tirò per raggiungere quella specie di piattaforma naturale. Era soddisfatto, sistemò il daino ben fermo. Fece colazione con la carne di un cosciotto. Si riposò. Aspettò finché il sole si fece troppo caldo per lui. Allora strappò delle frasche dagli alberi e coprì con estrema accuratezza la preda. Sarebbe tornato la notte successiva.
Un balzo e sparì nella zona d’ombra della macchia.
Trascorse il giorno. Il sole cadde con enfasi dietro la collina a ovest, quella a forma di pino. Dalla direzione opposta del cielo comparve, sbiadito, uno spicchio di luna. Tumán aveva passato il giorno a sonnecchiare. Fra i canti degli uccelli che cercano compagnia prima di dormire, l’oscurità calò lentamente sulla foresta e sui suoi abitanti, facendo svanire piano piano i contorni degli arbusti e dei tronchi. Si avvicinava l’ora di rimettersi in movimento. I suoi occhi vedevano meglio al buio.
Si leccò la pelliccia. Annusò l’aria. Drizzò le orecchie con i ciuffi e si mise in marcia, camminando sul nulla, senza rumore. Inaspettato sentì l’odore della femmina. Si chiese chi fosse, nel suo territorio ce n’erano molte. Incuriosito seguì la scia che lasciava quell’inconfondibile estro. La raggiunse. Entrambi emisero gravi miagolii. Si chiamava Ira. Non l’aveva mai vista. Era molto bella. Aveva da poco lasciato i due figli. Quando erano loro cresciuti i canini dopo dieci mesi dal parto, aveva loro insegnato a cacciare. Poi era andata via, era tempo di accoppiarsi di nuovo.
La notte avvolse la foresta. Si udivano, ogni tanto, animali notturni. Rapaci. Fra ringhi sommessi, si accese l’amore di Tumán e Ira. Trascorse così il tempo fino all’alba.
La bruma ancora calava sul bosco. Non tanto fitta come i giorni precedenti. Gli amanti ebbero fame. Si mossero dal loro giaciglio. Tumán voleva condurre Ira alla sua dispensa sugli alberi di betulla. Attraversarono la radura e si diressero verso la collina là dove c’era la scarpata. Quella mattina non incontrarono nessun daino. Anche il corvo, che di solito volteggiava in cerca di cibo, non c’era. Salirono sulle betulle. Tumán scostò le frasche che aveva disposto per nascondere il daino e offrì a Ira la sua cacciagione. D’un tratto però avvertì uno strano odore, aspro e penetrante, non era di un animale del bosco. Ma era tardi. D’improvviso una rete calò dall’alto e li intrappolò. Cominciarono a dibattersi emettendo grida acute. Di più la rete avvinghiò la sua preda. Quando il sole fu più alto avvertirono da lontano l’abbaiare dei cani. Di lì a poco poterono vedere degli uomini con la divisa grigio chiara che si arrampicarono sulla collina. Erano le guardie forestali incaricate di sorvegliare quella regione vicina al confine fra cinque stati, dove le foreste dei Carpazi sono più fitte. Tumàn e Ira guardarono con ostilità le guardie che esprimevano la loro soddisfazione. Poi furono fatti entrare in grosse scatole di legno che furono trasportate a spalla fino alla strada. La puzza dell’aria era per loro insopportabile. Come facevano quelle persone a non sentire quegli odori nauseabondi e a continuare a far finta di nulla? Le gabbie di legno furono issate su un vecchio camion. Dopo un giorno di viaggio su strade sgangherate arrivarono in un paese dove l’aria era più sopportabile. Era fra le colline e la foresta. L’aria aveva un odore salmastro. Truskavetz. Il villaggio del sale. Tumán e Ira non sapevano che era un centro rinomato da secoli per le cure termali. Così come non sapevano che c’erano una mezza dozzina di palazzoni dove si praticavano cure di ogni tipo che erano chiamati "sanatori". In ogni sanatorio potevano alloggiare fino a mille persone. Era un posto di vacanza premio per i lavoratori di tutta la ex Unione Sovietica. Man mano che il camion procedeva nel villaggio osservarono dei grossi edifici bigi a cinque o a nove piani. Fra di essi scappavano e giocavano folle di bambini. L’autista del camion si fermò a comprare le sigarette. Scambiò qualche parola con i passanti mentre fumava, soddisfatto del viaggio appena concluso. In men che non si dica il camion fu preso d’assalto dai bambini che cercavano di vedere fra le fessure delle scatole di legno. Poi il camion ripartì e si fermò davanti a un grosso sanatorio. Venne un uomo in camice bianco con due grosse siringhe in mano. Prima Tumán poi Ira. Furono addormentati. Si risvegliarono dopo un tempo indefinibile. Il sole che tramontava sulle colline gettava intorno a loro un’ombra lunga fatta a piccoli quadri. 
Erano stati sistemati in una grossa gabbia nel parco del sanatorio "Carpazi". All’interno erano stati disposti degli alberi scheletriti e una tana finta. Tumán cominciò a esplorare l’ambiente. Non c’erano vie di fuga. La rete era solida. Sul tetto era stata saldata una tettoia. Alla gabbia si accedeva attraverso una cabina fatta di rete di ferro con una doppia porta. All’esterno c’era una prima porta per entrare all’interno del gabbiotto. Da qui si apriva una seconda porta che dava all’interno della loro prigione. Le porte erano serrate. Niente da fare.
Per tutta la serata Tumán e Ira si accoccolarono sullo scheletro di pianta e dovettero sopportare i flash dei visitatori.
"Ris. Lynx lynx carpathicus. Lince dei Carpazi. Si stima che siano presenti 2800 esemplari su uno spazio compreso fra Ucraina, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania." Era scritto in bella mostra su un cartello davanti alla gabbia.
Ogni tanto Tumán leccava sul muso la compagna, sui ciuffi di peli ai lati del viso. Cercava di consolarla.
L’indomani conobbero i loro guardiani. Uno era una donna, si chiamava Orissa. L’altro era un uomo, Stepan.
Orissa e Stepan erano molto diversi. Tanto odiosa e precisa la prima, quanto simpatico e approssimativo il secondo. Forse era l’alcol che l’uomo beveva in continuazione. Portavano dei pezzi di carne quasi putrida. La donna si introduceva attraverso la porta esterna all’interno della cabina di transito. Poi Stepan chiudeva la porta esterna e Orissa apriva quella interna dalla quale si accedeva all’interno della prigione. Tumán rizzò i ciuffi di pelo sulle sue orecchie e con calma studiò il da farsi.
Venne la mattina del terzo giorno. Cominciava a nevicare. Da lontano Tumán osservò Orissa e Stepan avvicinarsi alla gabbia. L‘uomo era visibilmente ubriaco, questa volta aveva esagerato con la vodka. La sua collega se ne rendeva conto e ogni tanto lo apostrofava "Pízno, Stiupka! Pospisciái !" cioè "È tardi, Stepan! Sbrigati!" Orissa entrò nel gabbiotto. Tumán era arrampicato sul tetto, poteva osservare bene la scena. Stepan, barcollando, non aveva richiuso la porta esterna, ma la donna non se ne era resa conto, indossava uno spesso copricapo di lana grezza. Orissa aprì la porta interna e accedette all’interno della gabbia, sporgendosi fuori dalla porta della cabina di transito. Fu un attimo. Tumán si avventò dall’alto sul collo della donna emettendo urla furibonde. Ira approfittando della situazione sgattaiolò a lato della donna, spinse la porta esterna semiaperta mandando a gambe all’aria Stepan. Poi si fermò per aspettare Tumán. Ma Orissa era esperta. Con un forcone in mano respinse Tumán all’interno della gabbia e chiuse la porta fatta di rete metallica. Tumán guardò Ira. In un attimo i suoi occhi furono eloquenti come mille parole. Va’ Ira, Va’. Possa lo spirito della foresta accompagnarti nel tuo viaggio. Va’, scappa di là dalle colline. Porta la mia carne, i cuccioli che partorirai là dove ci siamo conosciuti. Dove l’acqua scorre e volteggia il falco, dove regna il silenzio e l’aria profuma di muschio. Abbi cura dei miei figli.


Tratto dalla raccolta "Del seme più forte" Racconti per Immagine, Edizioni Lampi di Stampa (2011).
http://www.ibs.it/code/9788848812856/di-stasio-stefano/del-seme-pi-ugrave-forte.html
http://www.hoepli.it/libro/del-seme-piu--forte/9788848812856.asp

© testo e foto di Stefano di Stasio


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