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domenica 25 dicembre 2011

Mişrātah

Mi chiamo Yussouf Al Kadr, ho 19 anni sono di Banghāzi. Frequento il secondo anno di università, ingegneria meccanica. La mia famiglia prima della rivoluzione di febbraio era benestante. Mio padre è medico, mia madre ostetrica, non hanno mai sopportato Muhamar al-Gaddafi. Dicono che è un sanguinario e che sfrutta il popolo. Mio nonno Amed ripete sempre le parole di suo padre, il defunto Mohamed Al Kadr, che combatté contro l’occupazione Italiana negli anni ’30. Il tiranno di oggi è figlio degli invasori Italiani di ieri. Sul suo letto mio nonno ha un ritratto di Omar Al Mukhtar. Lo chiamavano Asad al-Ṣaḥrā  "Il leone del deserto". Era della tribù beduina dei Minifa. Aveva settanta anni quando fu impiccato davanti a ventimila persone a Sulūq quella mattina del 16 Settembre 1931. Mussolini telegrafò ai giudici quando processarono Omar Al Mukhtar al palazzo littorio di Bengasi. Raccomandò di emettere una "immancabile condanna". Fece arrestare il suo avvocato difensore d’ufficio, il capitano Roberto Lontano. Muhamar al-Gaddafi usa gli aerei per bombardare i civili, la sua gente. Ha imparato dagli Italiani che bombardarono per primi con gli aerei l’oasi di Kufra nel 1930. Usarono armi chimiche, incendiarono i villaggi. E avvelenarono i pozzi.
Finora la mia vita è stata tranquilla. Sono alto, ho la carnagione del colore della sabbia e i capelli neri lisci. I miei occhi sono marroni. Mi piacciono molto le motociclette. Infagottato nella mia kefiah, mi piace sentire l’aria bollente del deserto mentre sfreccio sull’autostrada che da Bengasi porta a Qaminis. Ora quella autostrada è bloccata dalle milizie del colonnello. Ci sparano addosso con le batterie di razzi Grad. Ho deciso di aderire alla rivolta. Con altri compagni ci stiamo preparando. Non ero abituato a frequentare l’adẓuẓk, la marmaglia della città. Anche loro mi guardano con occhi meravigliati. Perché un ricco è passato con loro? Non importa, dobbiamo combattere ora, se Dio vuole. Salperemo stasera con una piccola imbarcazione per aiutare i nostri fratelli di Misurata. Da otto settimane sono sotto assedio. I mercenari di Muhamar al-Gaddafi hanno avvelenato l’acqua e tagliato la luce. Ci sono cecchini dappertutto. Sparano su donne e bambini. Di notte fanno rastrellamenti per le case, ammazzano e mutilano i cadaveri per impressionare la gente. I feriti non riescono ad arrivare in ospedale, perché bombardano anche le ambulanze. Ma Dio è grande. Il porto di Misurata è ancora libero. Entreremo in città passando da quella parte. Ci hanno addestrato in una settimana, alcuni amici ci hanno insegnato a usare le armi. Dio è grande.

Mi chiamo Ali Ben Jalil, ho 18 anni sono di Tripoli. Sono piccolo, ho la pelle caffè e i capelli a piccoli ricci. I miei occhi sono scuri come il colore dell’ Aghrb, lo scorpione della notte. Frequento il primo anno di ingegneria elettronica. Vengo da una famiglia povera, mio padre vende gli ortaggi al mercato aiutato da mia madre. Ho tre fratelli e due sorelle. Appena è scoppiata la rivolta la Guardia Nazionale di Muhamar al-Gaddafi è venuta a prelevare me e i miei colleghi studenti. Ci hanno portati nel deserto ai confini con la Tunisia, nella regione di Gadamis, e ci hanno obbligati ad arruolarci nel corpo che chiamano "i guardiani della rivoluzione". Abbiamo subito un addestramento duro di una settimana, i caporali della milizia erano molto severi. Parecchi di noi sono stati frustati. Ci hanno portato ad assistere a una esecuzione sommaria di alcuni soldati del rais che si erano rifiutati di obbedire agli ordini. Si erano rifiutati di sparare sulla folla in rivolta. Erano tutti con le mani legate dietro la schiena e in ginocchio. Ad uno ad uno sono stati giustiziati con un colpo di pistola alla nuca da un ufficiale della milizia. Ci hanno detto che questa è la fine per i traditori. Hanno sfilato loro gli anfibi dai piedi e ce li hanno consegnati. Dicono che ci serviranno. Dopo l’addestramento ci hanno portati prima a Zliten e poi a Mişrātah, per distruggere "il covo di cani rabbiosi" come dice il Colonnello. Ci hanno detto di sparare sui nostri fratelli, Dio ci perdoni. Per un po’ l’abbiamo fatto. Poi è successa una cosa. Un nostro compagno, Mustafa, ha fatto un prigioniero, ha scoperto un ragazzino con una bottiglia piena di benzina. L’ufficiale gli ha ordinato di sparare. Mustafa, l’ha guardato negli occhi. Lo conosco Mustafa, abbiamo studiato insieme. Ha due fratelli più piccoli della stessa età del suo prigioniero. Non ha obbedito. L’ufficiale ha sparato una raffica a lui e al suo prigioniero. Ho fissato la faccia di Mustafa. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca, gelata in una espressione di paura. Stava lì per terra, immobile, come se abbracciasse il cadavere del ragazzino. Allora, con l’aiuto di Dio, ho capito chi era il mio nemico. Sono uscito allo scoperto. Mi sono lanciato in una corsa senza prendere fiato verso le posizioni dei rivoltosi, protetto da una nuvola di fumo sollevata dai colpi dell’artiglieria pesante. Urlavo di non sparare e agitavo un fazzoletto. Un cecchino mi ha colpito ala gamba sinistra prima che riuscissi ad arrendermi. Ho strisciato nella polvere dietro alla carcassa di un tank. Mi hanno caricato su un pick-up e mi hanno portato in ospedale. Sono qui su una barella rossa, aspetto che venga un chirurgo. Fisso con lo sguardo i miei anfibi. Sopra ci sono ancora le macchie di sangue di Mustafa, il mio amico. Ma sono vivo, grazie a Dio. Allah è grande. Ho sentito un gemito dietro di me. Su una sedia c’è un ragazzo più o meno della stessa mia età. I lealisti del rais l’hanno colpito a una spalla. Non è un soldato di professione, si vede da come si lamenta, da quello che dice. Gli parlo, mi risponde. Si chiama Yussouf, viene da Bengasi, anche lui studia ingegneria.

 © testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata 2011

 

martedì 20 dicembre 2011

Intervista a Annamaria Trevale, autrice di “Solitudini”, raccolta di racconti

a cura di Stefano di Stasio


Dalla quarta di copertina:

Dodici storie diverse per raccontare come, in un mondo che ci appare sempre più spesso sovraffollato, sia fin troppo facile ritrovarsi completamente soli, senza alcuna distinzione fra giovani e anziani, fra poveri e ricchi. Solitudini materiali, ma anche morali, di persone all’apparenza ben collocate nella società che li circonda. Solitudini a volte cercate, a volte anche subite e non sempre sconfitte, come malattie sottili, alle quali è assai difficile trovare una terapia, il cui esito del resto rimane spesso incerto.


1. Buongiorno Annamaria, vorrei cominciare questa intervista con le parole che vengono riportate nel suo racconto "Secondo capitolo", lo stesso filo conduttore ripreso nella quarta di copertina:
mi piacerebbe avere la possibilità di rivederti, un giorno o l’altro. Anche solo per parlare delle nostre solitudini, la tua cercata e la mia non voluta ma subìta
Nel suo libro si parla di diversi personaggi e di tutte le età. Di questi solo il personaggio maschile di questo racconto sembra aver scelto deliberatamente di isolarsi dal mondo andando a vivere in una piccola isola. Sembrerebbe che a pochi sia dato il privilegio di una tale scelta e che invece alla maggior parte di noi non resti che subire il destino?

Questo libro è nato dall’idea di raccontare la solitudine come condizione esistenziale che può interessare, nel bene o nel male, tutte le età dell’uomo, perciò si apre con la storia di un’adolescente e si chiude con quella di una persona molto anziana.
Ogni protagonista affronta il problema della solitudine a modo suo, a volte accettandola, a volte lottando per liberarsene, e questa lotta può avere un esito positivo o negativo.
Guido, il protagonista di "Secondo capitolo", è un uomo che dopo alcune traversie, professionali e familiari, si è ritrovato a dover azzerare completamente la propria esistenza per ricominciare da capo: come gli animali che si nascondono a leccarsi le ferite dopo aver perso un combattimento, lui sceglie di andare a vivere in un luogo solitario, dove spera di ritrovare un equilibrio. Ha bisogno della solitudine per iniziare a ricostruire la propria vita.

2. Nel racconto "Figlia unica" che apre la raccolta "Solitudini" si parla del menage familiare di una coppia con una sola figlia. La ragazza, Chiara, è una studentessa modello che cresce svolgendo mille attività e impegnandosi ogni giorno in tante discipline come lo sport, la danza, la musica. Eppure le manca qualcosa ed è una cosa semplice: la compagnia dei genitori assorbiti completamente in un freddo tran tran di lavoro e faccende. L’unica persona sensibile nei confronti di Chiara è stata il nonno che è venuto a mancare. E tuttavia il tarlo che si fa strada nella mente di Chiara e prelude alla tragica fine è il rimpianto di non essere mai riuscita a dire in faccia ai genitori che non è la ragazza brava e diligente "a comando", di non aver mai detto loro di no. Che significa per un ragazzo dire no ai propri genitori e alle loro certezze?

Quando ho scritto quel racconto, i miei figli non erano lontani dall’età della protagonista.
Nell’ambito dei loro amici e compagni di scuola ho potuto conoscere situazioni familiari molto simili a quelle di Chiara, con genitori che spesso sovraccaricavano i figli di attività extrascolastiche, più che altro per evitare che trascorressero troppo tempo a casa da soli in attesa del loro ritorno dal lavoro.
L’idea in sé non sarebbe del tutto sbagliata, ma non tutti i ragazzini sono in grado di reggere certi ritmi: ne ho visti alcuni in preda a vere e proprie crisi di rigetto nei confronti di attività svolte senza convinzione, oppure altri in cui a fare le spese di questo iperattivismo era in definitiva il rendimento scolastico.
Ci sono anche molti genitori che danno per scontato il fatto che il loro figlio debba essere sempre e comunque il più bravo, e se questo non accade nascono grandi incomprensioni. Non sempre un ragazzino è in grado di far capire ai propri genitori quanto si senta inadeguato rispetto alle loro aspettative, se queste risultano eccessive o puntano a fargli fare cose per le quali non prova alcun interesse.

3. In alcuni personaggi della raccolta, come nel racconto "Paura della realtà", la solitudine scaturisce dal terrore di mostrarsi all’altro per quello che si è. Eppure non esistono solo galantuomini e gentildonne. Quale dovrebbe essere il giusto equilibrio fra aprirsi e proteggersi dell’individuo rispetto al proprio ambiente?

La "Paura della realtà" dei due protagonisti nasce dal fatto che oggi viviamo in un mondo molto superficiale, in cui ciò che conta è prima di tutto il nostro aspetto esteriore, spesso anche indipendentemente dai pregi e dai difetti interiori dell’individuo: sappiamo tutti che in molti ambienti si può essere promossi o bocciati al primo sguardo. Francesca e Matteo sono entrambi in conflitto con il loro aspetto esteriore, e questo li rende vulnerabili perché temono di essere giudicati solo per come appaiono e non per come sono realmente, tanto da evitare nuovi incontri. Il fatto di potersi aprire o meno agli altri è un fatto molto soggettivo: c’è chi lo fa per istinto, c’è chi ha difficoltà a concedere la propria fiducia, soprattutto se ha l’impressione di essere giudicato negativamente da coloro che frequenta. Del resto anche essere troppo aperti e disponibili presenta qualche rischio, quando compiamo errori di valutazione e ci confidiamo con la persona sbagliata.

4. In diversi racconti si parla di ingegneri. In uno in particolare, un sessantenne ingegnere, Andrea, costruisce una aspettativa sentimentale sulla figura di una collega di lavoro più giovane. Cerca di schivare il pensiero ossessivo dell’attrazione per la donna evitando di proposito di incontrarla ma poi finisce per cedere e chiede di vederla. A questo punto succede l’imprevisto. Per dirla alla John Milton: La mente in se stessa alberga, e in sé può trasformare / Nel ciel l'inferno e nell'inferno il cielo. Innamorarsi è sempre un rischio, non crede?
Una mia amica, quando ha letto "Solitudini", mi ha bonariamente preso in giro dicendomi che sembro ossessionata dagli ingegneri. In realtà mi sono resa conto troppo tardi di aver attribuito questa qualifica a diversi personaggi, ma questo è dovuto al fatto che la raccolta ha riunito storie scritte in tempi diversi, a distanza di mesi o addirittura di anni, e questo particolare è sfuggito in sede di editing.
Il personaggio di Andrea, in particolare, è vagamente ispirato a una persona reale di mia conoscenza, che ha vissuto un’esperienza simile. Direi che, negli ultimi anni, a quelli che erano i rischi congeniti dell’innamoramento se ne è agginuto un altro, dovuto allo sviluppo dei nuovi rapporti interpersonali che nascono attraverso Internet. Ci sono moltissime persone che intrecciano lunghe corrispondenze grazie alla posta elettronica e che si frequentano nelle chat e nei social network, ma spesso questi rapporti virtuali non riescono a trasferirsi nella realtà, oppure, se questo accade, diventano fonte di grandi delusioni.
Naturalmente esiste anche il rovescio in positivo della medaglia, con i casi felici in cui un incontro reale conferma le affinità che erano emerse nel mondo virtuale, ma nel caso del racconto il protagonista si sente attratto da una donna di cui, in realtà, non sa quasi nulla, perciò ha difficoltà a far coincidere l’immagine virtuale, creata dai suoi bisogni e desideri, con la donna concreta che vorrebbe incontrare.

5. La tematica della immigrazione femminile e dell’assistenza agli anziani è importante nel quadro della famiglia Italiana contemporanea. Lei la presenta nel racconto "La badante" che ha per protagonisti, ancora un ingegnere e una donna Polacca molto più giovane. Qual è la sua opinione sui flussi migratori in Italia, in questo momento di recessione per il nostro paese?

Personalmente non credo che gli immigrati portino via il lavoro agli italiani, come sostengono spesso coloro che sono contrari ad accoglierli, semplicemente perché nella maggior parte dei casi sono venuti a occupare degli spazi rimasti vuoti nel mercato del lavoro: non sono più molti gli italiani disposti a svolgere certe mansioni particolarmente sgradevoli, come la cura di persone anziane non più autosufficienti, per non parlare di mestieri come l’addetto alle pulizie, il raccoglitore di frutta o il manovale. Negli ultimi anni ho purtroppo avuto occasione di frequentare spesso residenze per anziani, e solo una minima parte di coloro che ogni giorno erano impegnati a pulire, nutrire e accudire in tutte le maniere persone prive di autonomia fisica, o peggio ancora psichica, era di nazionalità italiana. La convivenza tra persone appartenenti a etnie differenti è sicuramente fonte di problemi non da poco, ma non siamo certo il primo paese occidentale chiamato ad affrontarli: che piaccia o no, la popolazione dell’Italia sarà sempre più multietnica, e del resto basta muoversi nelle strade delle grandi città per rendersi conto che il processo è ormai irreversibile.

6. Scrive Maria Miceli, una ricercatrice dell’Istituto di Scienze Cognitive e Tecnologie del CNR, nel suo lavoro in Sentirsi soli, che la solitudine è il prezzo necessario da pagare per evitare di smarrire la propria identità. Qual è il suo punto di vista?

Forse questa è un’affermazione un po’ troppo impegnativa, nel senso che non per tutti la solitudine è così importante, però credo che tutti noi abbiamo bisogno di passare almeno una parte del nostro tempo soli con noi stessi per vivere meglio, anche se la dimensione di questo tempo può variare da un individuo all’altro: ci sono persone che si sentono al meglio solo in mezzo al frastuono e alla ressa, e altre il cui ideale supremo sarebbe quello di poter vivere per sempre su un’isola deserta, mentre provano disagio negli ambienti affollati.

7. Nei suoi racconti si parla anche di anziani. Eppure non sono soli, vivono in condomini dove si trova facilmente l’opportunità di scambiare qualche chiacchiera con i vicini. Per una persona ormai fuori dal mondo del lavoro come nel caso della protagonista di "Panchine", Carlotta, che cosa rappresenta poter incontrare gli altri o addirittura, poter mettere a disposizione di uno sconosciuto il libri della biblioteca del marito defunto?

Carlotta è una donna che vive senza problemi la sua vecchiaia, anche se è rimasta da sola dopo la morte del marito: ha comunque una figlia, ha le amiche e le vicine di casa con cui scambiare due chiacchiere sulle panchine del giardinetto comunale che danno il titolo al racconto.
Appunto perché è una persona positiva e socievole, cerca di fare amicizia con un altro anziano, anche se forse un po’ meno socievole, che però attira la sua attenzione perché quando lo vede sulle panchine dei giardini lo trova sempre immerso nella lettura: l’amore per i libri era secondo Carlotaa una delle qualità più importanti del marito scomparso. E sapendo che, abitando come lei nelle case popolari, non deve trattarsi di una persona con grandi disponibilità finanziarie, trova spontaneo offrirgli in prestito i libri del marito che conserva in casa propria.

8. In un altro racconto si parla di un’anziana donna, Marta, che, al contrario di altri anziani, è seguita e accudita costantemente da una delle proprie figlie. Sembra quasi che debba addirittura sudare per essere lasciata in pace e avere il tempo di fare una telefonata. Le persone anziane a volte sono imprevedibili. Dove finisce il bisogno di assistenza e dove comincia quello di tranquillità?
Marta fa parte di quelle persone che non hanno nessuna paura di restare per un po’ di tempo sole con i propri pensieri. Si considera fortunata perché, pur essendo anziana e con qualche problema di salute, ha due figlie che si occupano di lei, ma mentre una delle due limita i suoi interventi al necessario, l’altra sembra provare una particolare gratificazione nell’accudire la madre in unmodo fin troppo assiduo. In fondo tra le due non è tanto la madre anziana ad avere problemi di solitudine, quanto piuttosto la figlia, che dopo il fallimento della propria vita affettiva sembra aver fatto dell’assistenza alla madre il suo principale scopo di vita.
Anche se è importante avere qualcuno che si prenda cura di noi quando siamo anziani e malati, credo che a nessuno faccia piacere sentirsi chiedere in continuazione come sta, cosa desidera, se ha bisogno di qualcosa… Le persone troppo premurose spesso rischiano di diventare asfissianti. 

9. Ci può parlare della sua esperienza di autrice e dei progetti futuri?
Questo temo sia un argomento delicato per tutti gli autori che, come me, non sono riusciti ad andare oltre la pubblicazione con case editrici molto piccole.
Dopo una decina d’anni di esperienze varie, con la pubblicazione di libri personali e la partecipazione a numerose raccolte di racconti con altri scrittori, oltre a collaborazioni a riviste e siti letterari online, mi sento un po’ in una fase di stallo. Ho l’impressione che esistano due mondi letterari abbastanza separati tra loro: da un lato quello dei piccoli e piccolissimi editori, dall’altro quello delle case editrici medio-alte, e temo che sia molto difficile fare il "salto" dal primo al secondo.
Conosco ormai molti autori che si aggirano da decenni nel mondo della microeditoria e dei concorsi letterari, mietendo successi in questo ambito ma senza mai arrivare a farsi conoscere da un pubblico più vasto, perciò al momento non nutro molto entusiasmo nei confronti del futuro: sto scrivendo un romanzo, ma non ho la minima idea di cosa ne farò una volta che l’avrò terminato.
Ho avuto rapporti con diverse case editrici nell’ambito della microeditoria, ma il loro rapporto con l’autore è più o meno sempre lo stesso: con rare eccezioni, si limitano a mettere a disposizione il libro stampato, ma non hanno né i mezzi economici né la disponibilità a occuparsi della sua diffusione, che ricade pressoché totalmente sulle spalle dell’autore.
Il quale poi, nella stragrande maggioranza dei casi, una volta che abbia esaurito i parenti e gli amici disposti ad acquistare la loro copia, se non ha la possibilità di organizzarsi presentazioni qua e là (cosa non certo facile e spesso anche costosa) si ritrova al palo, e spesso più frustrato di come si sentisse prima della pubblicazione.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 14 e 18 Dicembre 2011. Pubblicata su Parole e Fotografie
http://www.paroleefotografie.blogspot.com/

SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: Solitudini
Autore: Annamaria Trevale
Editore: Prospettiva Editrice
Data di Pubblicazione: Marzo 2008
Collana: I Ridotti Interrete - 3
ISBN: 9788874184743
Pagine: 85
Formato - Prezzo: Brossura - 10,00 Euro

domenica 11 dicembre 2011

Kanelbulle / Brioche alla cannella

In bicicletta nella tormenta. Come riuscivano a non cadere? A terra la neve stava ghiacciando. Osservavo meravigliato quegli studenti che andavano in bici mentre fioccava. Mi coprii il capo con il cappuccio della giacca per ripararmi dal freddo. Era l’inizio di dicembre ma già in Svezia la temperatura era scesa a meno venti gradi Celsius. Avevo accolto l’invito della mia amica Yvonne che stava organizzando una conferenza. Ero andato per darle una mano. Mi aveva colpito il salone degli arrivi dell’aeroporto di Kopenhagen-Karlstrup. In alto c’era un enorme orologio. A destra la biglietteria a sinistra l’ufficio di cambio. Una scala e già eri sul binario per prendere il treno per la Svezia. Un tunnel sotto il braccio di mare che separava la Sjælland, l’isola di Kopenhagen, dalla penisola scandinava. Un tunnel e un ponte avevano definitivamente relegato nel settore dei miei ricordi di gioventù i traghetti che c’erano trenta anni fa. Yvonne era venuta a prendermi alla prima fermata del treno in terra Svedese. Appena sceso dal treno mi ero reso conto che camminare sarebbe stata una sfida. A ogni passo, a ogni minimo movimento, rischiavo di scivolare su uno strato di ghiaccio. Era notte e i fiocchi di neve venivano giù fitti e grossi. Diffondevano nell’aria secca la luce gialla dei lampioni rischiarando il piazzale di sosta della stazione. Il tratto in auto mi sembrò breve. Ogni parola scambiata con la mia amica pareva ovattata. Arrivammo a Lund. Ci accolse il fumo della centrale termica. Dopo un brindisi di benvenuto mi congedai da lei.
In albergo non si vedeva anima viva. Era già tardi. Presi la chiave in portineria e raggiunsi la mia camera. La notte passò lentamente. Dalla spaziosa vetrata posizionata di fronte al mio letto attesi la luce del giorno. Tardò a arrivare. Era l’inverno del Nord. Una luce d’emergenza e un bip-bip distolsero la mia attenzione dalla linea dell’orizzonte. Era lo spalaneve che aveva ripreso a lavorare. Mi vestii in fretta e raggiunsi la sala della colazione. Sulla porta senza maniglia c’era un cartello che diceva "Per aprire mostrare la chiave dell’hotel". Pensai a qualche stregoneria tecnologica dell’ ultim’ora. Estrassi dalla tasca della giacca la chiave con la sua targa di bronzo pesante e cominciai a sbandierarla davanti all’ingresso. Però era strano, non vedevo nessuna telecamera. Continuai così per qualche minuto. Niente, la porta non si apriva. Nel tunnel del centro commerciale attiguo all’hotel vidi da lontano avanzare due uomini. Erano vestiti in tuta di lavoro. Intirizziti dal freddo venivano a prendere un caffè. Mi feci da parte. Uno di loro, senza curarsi minimamente del cartello sulla porta, si accostò al lato sinistro vicino ai cardini e premette qualcosa. Mi sentii un incapace. Come ebbi modo di verificare nei giorni seguenti, tutte le porte di quella regione della Svezia erano equipaggiate di una grossa tavoletta metallica che funzionava da apri porta automatico. Era una soluzione intelligente. Così anche se avevi le mani occupate, la porta si apriva da sola e potevi entrare senza lasciare il tuo bagaglio.
Dopo la colazione decisi di fare quattro passi. Era domenica. Raggiunsi in autobus il centro storico e da lì la cattedrale. Era dell’anno Mille. All’interno c’era un grande orologio tutto fatto di legno. Fui colpito dal fatto che alcuni ragazzi distribuissero tazze di tè e caffè all’interno della chiesa. Mentre percorrevo la navata destra incrociai degli individui vestiti in abiti talari. Erano giovanissimi. Poi notai una cosa strana. C’era una donna vestita coi paramenti sacri. Che strano! Pensai che fosse una religiosa di qualche ordine particolare. Ancora una volta, mi sbagliavo. Erano le undici del mattino e cominciò la funzione religiosa. La donna salì sull’altare e iniziò a dir messa. In Svezia c’erano anche le sacerdotesse. Mi sembrò giusto. Pari opportunità. La celebrante lesse la liturgia e si soffermò sulla lettura di un testo sacro. Poi si interruppe. Che cosa aspettava? All’improvviso da un pulpito attaccato a metà della navata di sinistra si udì una giovane voce maschile. Era uno dei sacerdoti che avevo notato poco prima che spiegava l’omelia. Tutti i fedeli si girarono sulla loro sinistra per osservarlo meglio. Non capivo una parola di Svedese, ma dal tono si intuiva che il giovane prelato stava severamente arringando i convenuti sul messaggio evangelico. Si fermava, rimproverava, spiegava. Quando l’omelia fu finita, decisi di uscire anche se la cerimonia stava continuando. Nel parco di fianco alla cattedrale, mi divertii a camminare sullo strato soffice di neve. Scattai qualche foto alle statue che rappresentavano eroi nazionali. Poi su un mucchio di carbone e torba notai un gruppo di corvi. Sembravano interessarsi a me. Mi osservavano e poi comunicavano fra di loro. Chissà che cosa avevano da dirsi.
C’era un museo lì vicino. Entrai. La signorina all’ingresso mi illustrò la tariffa. Faceva la pubblicità di due libri sulle attività archeologiche condotte in un sito non lontano, situato in quella regione della Svezia meridionale, che si chiamava Uppåkra. I testi erano redatti dai professori che avevano curato il recupero dei reperti e stampati dall’editore dell’università. Erano in Inglese. Li acquistai cercando di tirare sul prezzo, ma fu inutile. Uno era dedicato alle monete che erano state rinvenute nel corso di vari scavi. Si intitolava Treasures in Skåneland. E così venni a sapere che quella parte della Svezia era stata a lungo sotto la dominazione dei re di Danimarca e che ogni re cercava di battere la sua moneta. Ma non avevano argento e oro a sufficienza e, per questo motivo, alla fine coniarono monete di rame che, tuttavia, non durarono a lungo. Era anche simpatico il fatto che, come in una lite di famiglia, ogni volta che subentrava un nuovo regnante dichiarava fuori corso le monete precedenti e sequestrava tutti i fabbri in grado di coniare monete per essere sicuro che fossero battute solo le sue. L’altro libro era più interessante, Barbaricum. Parlava di reperti archeologici dell’età del ferro. Alcuni di quei reperti erano esposti nella sala a piano terra del museo. Entrai nella sala, mi accolse una ambientazione multimediale dei fatti e dei luoghi. E così mentre il commento sonoro, fatto di vento e eco di grida, diffondeva dall’impianto stereo, un fuoco finto, dietro una parete di vetro, illuminava la stanza con i suoi bagliori palpitanti. Mi misi a osservare le punte di lancia e di ascia e i monili disposti in bell’ordine nelle teche. Nel sito di Uppåkra, nel corso di scavi recenti, erano stati rinvenuti i resti di un rito di festeggiamento sul nemico vinto. Era consuetudine dei popoli del Nord Europa nel quinto secolo, dopo avere ottenuto la vittoria in guerra, di riportare a casa tutto quello che erano riusciti a strappare al nemico vinto. Armi, merce preziosa, abiti, cavalli e prigionieri. Poi in una specie di rito orgiastico tutto questo veniva distrutto dalla popolazione dei villaggi. Così i prigionieri venivano impiccati, i cavalli affogati nei corsi d’acqua, le lance e le asce ridotte in pezzi. Perfino l’oro e l’argento, prima appartenuti agli avversari, venivano gettati nel fiume. Questo rituale venne in seguito definito "trionfo" dagli antichi Romani. Le cronache di Paulus Orosius, uno storico iberico dell’Anno Domini 417, fornivano i particolari crudi di questi riti. Nel mucchi di reperti del trionfo rinvenuti a Uppåkra c’erano delle punte di lancia ritorte e ossa umane. Nella stanza di seguito c’erano alcune bacheche con monili e collane. Molte erano di ambra. Un tempo gli uomini e le donne erano di statura più bassa rispetto a oggi. Così anche i gioielli erano minuti. La lavorazione era però precisa. C’erano motivi a onda, il serpente e l’orso, le rune. Di fronte ai gioielli c’era il cranio di una donna in una teca. Un’esecuzione. Nel cranio c’erano due buchi uno al centro e uno di lato. Gli esperti avevano ricostruito che questa poveretta era stata giustiziata, dopo essere stata immobilizzata in ginocchio, con due colpi di mazza. Uscii dalla sala, avevo bisogno di bere.
Nella caffetteria del museo lì vicino comprai un dolce alla cannella e un caffè. Uscii nel parco. Aveva ripreso a nevicare. Cominciai a mangiare con avidità ma il dolce era veramente grosso e dopo poco non ne ebbi più molta voglia. Mi guardai attorno. Da un muretto un corvo mi osservava attentamente. Lo guardai, mi guardò. Capii che cosa mi stava chiedendo. Staccai un pezzo del dolce di cannella e lo lanciai sulla neve. Il corvo non si scompose. Studiò ancora un po’ le mie intenzioni. Poi, per niente intimorito, volò basso e raccattò il suo pasto. Cominciò a beccare il pezzo di dolce. Continuai a mangiare per inerzia la mia ciambella. Dopo poco il corvo mi guardò di nuovo. Lo riguardai. Scambiammo veloci la sensazione di soddisfazione che condividevamo in quel momento. Lui, come me, era già sazio. Tuttavia a me non andava di sprecare il cibo avanzato. Anche lui era dello stesso avviso. Spezzai in due pezzi ciò che rimaneva nelle mie mani della ciambella. Lanciai verso di lui il primo pezzo. Saltellò sulla neve. Si avvicinò e prese il boccone con il lungo becco. Poi si girò. Si spostò, saltellando a piccoli balzi, verso il muretto. Arrivato nei pressi della base di questo, là dove i mattoni spuntavano dal suolo, affondò il suo capo nella neve. Quando riemerse nel becco non c’era più nulla. Che aveva fatto? Volevo essere sicuro di aver capito bene. Lanciai sulla neve l’ultimo pezzo di dolce. Ancora il corvo si avvicinò. Ancora raccattò il suo boccone. Con un saltello fece un dietro front. Si diresse questa volta verso un segnale stradale che era distante una decina di metri. Raggiunse la base del tubo di sostegno. Di nuovo affondò il capo nella neve fino a scomparire. Di nuovo riemerse senza boccone nel becco. Senza fretta si allontanò anche dal secondo nascondiglio. Tutt’intorno caroselli di fiocchi di neve impazziti nel vento celebravano, come in un rito ancestrale, il trionfo del gelido inverno che sopraggiungeva.

Tratto dalla raccolta "Del seme più forte" Racconti per Immagine, Edizioni Lampi di Stampa (2011).

© testo e foto di Stefano di Stasio

L'antologia di 14 racconti e 15 fotografie "Del seme più forte" è reperibile on line su:
http://www.hoepli.it/libro/del-seme-piu--forte/9788848812856.asp
http://www.ibs.it/code/9788848812856/di-stasio-stefano/del-seme-pi-ugrave-forte.html

oppure presso la libreria Spartaco Interno 4 di S. Maria C.V. e la libreria Mondadori di Caserta.

mercoledì 7 dicembre 2011

PAROLA DI SCAMBIO: Ritratti di una cubista


Prosegue la rubrica "Parola di scambio" che riporta in cronaca le impressioni da parte di voi lettori su "Ritratti di una cubista" pubblicato nel post che precede questo.
Una finestra socchiusa sul significato di identità della persona che sembra sfuggire nelle relazioni fra simili. Un inquietante punto interrogativo sui rapporti all’interno del nucleo parentale rispetto a quelli all’esterno di esso, nella società dello sfruttamento e del sesso esibito. Una riflessione, quella che propone "Parola di scambio", che muove dal narrare di un testimone immaginario e che può appartenere a tutti noi. Un racconto sussurrato a voce  roca sulla scia di quel disagio quasi "tattile" che si prova esplorando  pieghe invisibili e dinamiche di mercimonio di una società distratta.
Grazie a Mirko, Veronica e Nina, gli autori delle recensioni riportate in questa edizione, per la sensibilità e la condivisione di questo racconto che viene proposto sempre come spunto di discussione. Chi volesse dire la sua può contattarmi, i numeri della rubrica "Parola di scambio" sono sempre aperti per altre impressioni o commenti ex-post da parte vostra.

Il racconto "Ritratto di una cubista" è in archivio di Parole e Fotografie al link:
http://paroleefotografie.blogspot.com/2011/12/ritratti-di-una-cubista.html


MIRKO GIACCHETTI
Un Picasso in fiamme ti può andare? Happy Feet - Paolo Conte.
Quando ho letto il titolo del racconto di Stefano di Stasio, ho pensato ad una biografia di una pittrice; una donna sommersa dalla marea maschilista di pittori… Sin dalle prime righe mi sono dovuto ricredere. La cubista di cui si parla è un’ "artista" del ballo. La breve biografia orale adottata per raccontarci chi è Melania, non ci permette di conoscere il personaggio. I narratori ci danno un’immagine diametralmente opposta della dancer. I due caratteri - la definizione metafisica dell’anima di Melania- sono costruiti attraverso i ricordi dalla madre e la monetizzazione dall’impresario. I due ritratti non combaciano, eppure il protagonista è uno. Mi chiedo: qualcuno dei due narratori conosce il materiale che, presume, di aver modellato? La madre conosce la figlia? L’impresario conosce l’artista? Direi di no. La madre ci descrive una bambina, l’impresario un bancomat… Il racconto ci obbliga a riflettere su quanto i due conoscano la cubista. Premiamo con la simpatia l’affetto e la tenerezza della madre e biasimiamo l’avidità con cui l’impresario sfrutta la ragazza. Mi chiedo: ma ognuno di noi non è contemporaneamente madre e impresario? Tutti noi, non abbiamo delle immagini di noi stessi e degli altri, dietro a cui scompare la reale essenza del soggetto e su cui riversiamo i nostri sentimenti e i tornaconti? La radice delle illusioni e delle delusioni è nell’equivoco della conoscenza esatta che pretendiamo di avere. Si apre la via dello Zen e della Meraviglia. Lasciare che le cose ci vengano incontro per quello che sono. È impossibile? Per i reclami dobbiamo rivolgerci a Stefano; con i suoi racconti ci obbliga a sfogliare la realtà, a confrontarci con quelle contraddizioni quotidiane che sfuggono ad uno sguardo superficiale. Nei suoi scritti spesso ricerca le radici, la storia da cui nasce l’essenza stessa delle cose che ci assediano. I suoi scritti sono l’invito a cui non si può mai dire di no.


VERONICA DI GIRONIMO
Protagonista del racconto é Melania, una ragazza di provincia timida e insicura, caratterizzata da una bellezza sfacciata facile da vendere. Intorno a lei lo squallido ambiente della provincia, i pomeriggi in parrocchia come unica evasione e la difficoltà di fare amicizia che caratterizza la sua giovane età.
Melania é la protagonista della vicenda, ma non parla mai. Raccontano di lei, con grande enfasi e sicurezza, l'impresario e la madre, descrivendo la ragazza dal loro punto di vista. Per la madre, Melania è timida, incapace di crearsi un futuro, di fare le giuste scelte, ci penserà lei a farla uscire dall'anonimato della provincia e a renderla felice. L'impresario ne parla in modo superficiale, Melania è solo merce da vendere, nulla di più. E nello squallore dei locali notturni, popolati da uomini soli e smaniosi di sesso, si perde l'autenticità della ragazza e il suo desiderio di vivere.
Racconto dai toni forti, a tratti amaro, lascia il lettore come spettatore impotente di una quotidianità molto spesso ignorata. Mi ha colpito molto l'abilità dell'autore nel descrivere i personaggi che ruotano attorno alla protagonista, la loro bassezza d'animo, l'ignoranza, ma soprattutto la modalità con cui ci parla della protagonista, lasciando trapelare il suo disagio e la solitudine.


NINA PENNACCHI 
… In che modo è successo? Quando? Cosa l'ha fatta cambiare così? E soprattutto, è cambiata davvero, Melania? Perché magari la ragazza di cui parla l'impresario, e di cui parla la madre, è la stessa. Forse non è cambiata affatto. Si nascondeva allora; si nasconde anche adesso, in modo molto più profondo, mentre si spoglia per chi non la conoscerà mai…

La recensione completa di Nina è sul sito:
http://www.braviautori.com/ritratti-di-una-cubista.html


Il numero precedente della rubrica "PAROLA DI SCAMBIO: Tumán", una cruda storia d'amore fra due insoliti protagonisti, lo potete trovare qui:
http://paroleefotografie.blogspot.com/2011/10/parola-di-scambio-tuman.html


 


sabato 3 dicembre 2011

Ritratti di una cubista


L’impresario. Ho creato io Melania. Era una ragazza di provincia, parlava sempre troppo, era incontenibile. Aveva sempre la maledetta abitudine di interrompere le mie conversazioni con gli amici che contano. Sta’ zitta una volta tanto, quanto sei oca! Per fortuna hai tutte le carte in regola, e anche il resto. Farò di te una star.

La madre di Melania. A scuola era timida. Le maestre mi parlavano spesso di quella sua difficoltà a rispondere quando veniva interrogata. Le si bloccava la parola in gola. Pronunciava la "s" come una "ch" e la "r" come una "l". Mi ricordo che la portai anche a fare una visita da un famoso specialista che le prescrisse delle sedute di logopedia.

Ma quanto sei sfacciata! Pur di farti riprendere da una telecamera andresti a letto anche con un morto. Aspetta un momento sto parlando con un mio amico. Cercheremo di organizzarti uno spettacolo un po’ particolare. Mi hai detto che ti piace fare la lap dance. Vediamo…

Non ti dico poi con i ragazzi. Era completamente imbambolata. Io le dicevo, Melania ma cosa vuoi che sia! Chiamalo a telefono questo benedetto ragazzo se ti piace così tanto. E invece niente, diventava rossa, poi cominciava a saltellare sul posto e urlava No, non ce la faccio, non ne sarò mai capace. Mi preoccupai, si sa oggi è meglio che le figlie crescano spregiudicate, è duro farsi strada. La portai da uno psicologo. Melania ci andò controvoglia. La faceva parlare, le chiedeva del padre. Dopo qualche seduta, mia figlia mi disse che l’odiava. Un giorno mi buttò in aria tutti i piatti buoni e mi disse: "Che cosa vuoi da me? Sono timida! Lasciami in pace".

Ecco mi sono messo d’accordo con il Puppi. Lui è uno che conta, conosce deputati e vip. Abbiamo organizzato uno spettacolo alla discoteca "L’Étoile". Sei contenta? Ti credo, è l’ambiente più chic della città. Industrialotti, trafficanti. Gente con la grana. Là è facile fare qualche "servizio" e mettersi in tasca, o meglio nelle mutandine, biglietti da cinquecento euro. Che culo che hai! E dire che ci sono tante come te che ci provano per anni a entrare in certi ambienti. Mah! Forse al Puppi sarà piaciuta la tua foto, quella con il capezzolo destro coperto dall’ombra dell’orchidea. O forse gli piace la tua voglia di caffè sulla coscia all’altezza dell’inguine. Che ne so? Puppi è un cocainomane, non sono nemmeno sicuro che ci veda bene, è sempre fatto!

Figuratevi che Melania ha sempre rifiutato di farsi fotografare. Alle feste di compleanno era gentile e scherzosa con tutti, ma appena spuntava una macchina fotografica scappava via e non si poteva ritrovarla più. Mi viene da ridere. Noi abitavamo in campagna a quell’epoca e avevamo una specie di fattoria con gli animali. Beh, una volta andai a riprenderla nel fienile. Era nascosta sotto la paglia e non veniva fuori. Quando poi le mostrai la macchina fotografica aperta con il rullino che prendeva luce e mosche, si decisa a venire via con me. Come rimasero male i cugini!

Allora ci siamo, baby! Ti sei depilata? Bene! Ora devi mostrare tutto il sesso che hai in corpo. Là fuori la gente è calda, ha già bevuto. Non è difficile. Ma devi andarci piano. Muoviti bene e ondeggia il bacino mentre giri attorno al palo. Sono fatti di alcool e di coca. Devi stuzzicarli. All’inizio ti copriranno di fischi. Ti vogliono nuda in fretta. Fregatene! Vai piano e lentamente. Mi raccomando il seno. Non scoprire insieme le tette. Prima una e poi l’altra. Fai finta di volerti proteggere. Questo li manderà in bestia, sono dei pervertiti. Poi lentamente avvicinati al bordo della pedana e lascia che ti infilino le banconote da cento euro negli slip. Non preoccuparti. Un uomo che paga non è un uomo vero. La banconota è una protesi! Quelli che ti danno soldi non te li ritroverai in camerino dopo.

Dopo la prima comunione, il parroco don Lorenzo, mi propose di far partecipare Melania al coro della messa della domenica. Andavamo in una cappellina di campagna dedicata a S. Maria degli Angeli. C’era una maestra di canto, una anziana zitella che si chiamava Leonilde Soprano. Era molto severa. Melania si disperava quando la maestra le rimproverava di non aver ben intonato un attacco nel coro oppure di essersi soffiata il naso. La domenica era sempre nervosa Melania. Salivano sul soppalco della cappellina e cominciavano a cantare. Il soppalco era sopra l’ingresso della chiesa di fronte all’altare. La signora Leonilde distribuiva occhiate severe mentre don Lorenzo alzava gli occhi aspettando con ansia che iniziassero il canto e con timore che lo terminassero completamente. Penso che anche don Lorenzo fosse ossessionato dalla signorina Leonilde.

Sei grande! Vai continua così. Stanno dando di matto. Guarda quello lì, si è messo in ginocchio davanti alla pedana. Vuoi vedere che hai fatto il miracolo? Secondo me non gli veniva duro da tre anni! Povera moglie. Girati, girati, fai vedere le chiappe, così! Cacchio, come sbavano. Lo sapevo, a questi impotenti piacciono le ragazze di provincia. Si ricordano di quando erano giovani e andavano a fare bagordi nelle feste di paese. Con le auto di grossa cilindrata dei genitori. Brutti bastardi! Era facile per voi farle cadere ai vostri piedi. Mica come me, che avevo una vespa e per di più con una ruota anteriore ovale, a furia di prendere fossi.



© testo e foto di Stefano di Stasio

domenica 27 novembre 2011

Intervista ad Alessandra Pontecorvo, autrice di “La Perla nel tempio” raccolta di racconti

a cura di Stefano di Stasio



Dalla quarta di copertina:

…Da sempre l’uomo sente di aver perso l’Eden, uno stato di beatitudine primigenia in cui aveva tutto e non mancava di nulla. Sente di aver perso tutto questo per una colpa commessa. Ecco, da questo senso di perdita che ci accomuna tutti, dal senso di stupore che ci pervade quando ci rendiamo conto di partecipare tutti a questo sentimento, nascono i dodici racconti riuniti in questo libro. Tutti parlano di una perdita: presunta o drammaticamente reale, riparabile o irreparabile, che riguarda un oggetto banale o la persona più amata o addirittura la vita stessa. A volte, questi racconti finiscono bene, a volte finiscono male, esattamente come accade nella vita. Ma tutti questi racconti nascono dallo stupore di apprendere che nell’altro che si trova di fronte a noi, la perdita risuona nello stesso identico modo in cui risuona in noi stessi…



1. Buongiorno Alessandra. La sua raccolta di racconti "La perla nel Tempio" si apre con una citazione di Primo Levi: "…Ciò che comunemente intendiamo per comprendere / coincide con semplificare: / senza una profonda semplificazione il mondo intorno a noi / sarebbe un groviglio infinito e indefinito, / che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere". Qual è la semplificazione che propone in questa raccolta di undici racconti?

La semplificazione che propongo è la narrazione dell’empatia, e cioè di un sentimento. In questo caso, del sentimento della perdita, vera o presunta, e dell’empatia da essa generata. Per quanto i sentimenti legati alla perdita siano quasi certamente bagaglio comune, devono comunque essere trasformati in narrazione e quindi analizzati, compresi, essenzializzati, decomposti e poi ricomposti in un insieme condivisibile. Ho fatto la scommessa di sintonizzarmi col lettore in modo da creare una consonanza. Un tentativo un po’ in controtendenza rispetto all’estetica contemporanea secondo la quale il lettore deve essere "scioccato" e la sua attenzione catturata attraverso narrazioni trasgressive (delitti, devianze, sesso) o evocazioni di mondi inesistenti (maghi, vampiri, ecc).


2. Nel racconto che dà il titolo al libro "La perla nel tempio" la protagonista partecipa a una cerimonia di battesimo nel Tempio ebraico, appunto il Bat Mitzvà della figlia di un’amica. Nel corso della storia smarrisce un orecchino con una preziosa delle due perle del Bahrein, regalo del marito. Inizia così una rocambolesca e affannosa ricerca della perla perduta. La protagonista che "…non era tipo da prendere iniziative.." si rimprovera di aver voluto cambiare la montatura originale degli orecchini con una senza il fermo. Da un certo punto di vista è come la perdita della perla le avesse confermato ciò che ha perduto alla sua nascita. È infatti figlia di una madre cristiana e di un padre ebreo che si è convertito, impedendole così di essere considerata a sua volta ebrea. Nell’immaginario della protagonista si confrontano le reazioni e i commenti allo smarrimento di questo oggetto feticcio della madre e quelle opposte del padre. Che cosa è per lei la perla e la sensazione di perdita?

Una piccola correzione: il Bar Mitzva (o Bat Mitzvà, per le ragazze) è la cerimonia di Confermazione e si svolge intorno ai 12, 13 anni. Ho cercato di raccontare in modo leggero quella che per me è stata una tragedia, un trauma inenarrabile. Nel momento in cui - da adolescente - mi sono resa conto che il fascismo e le leggi razziali avevano causato l’uscita della mia famiglia dall’Ebraismo (e via via, man mano che, studiando, mi rendevo conto di cosa avevo perso sul piano spirituale personale e di cosa aveva rappresentato storicamente la Comunità Ebraica di Roma), ho avuto una reazione violentissima e duplice: da una parte ho rifiutato la "normalità" che percepivo come impostami contro la mia volontà, dall’altra ho cercato di recuperare più Ebraismo possibile sia sul piano esistenziale sia sul piano culturale. La perla è la figlia dell’ostrica, dice la simbologia ebraica. E’ il prodotto, estremamente prezioso, di una gestazione attraverso la quale un insignificante granello di sabbia viene ricoperto di madreperla e diventa un globo luminoso di grande bellezza e valore. Si diventa "perla" (se si desidera) dopo un prolungato sforzo di autocostruzione, di cadute e risalite, di dono di sé nonostante la paura, il senso d’inadeguatezza, attraverso un costante sforzo di vivere e di non essere mai soli e di non far mai sentire solo chi ti è vicino. La perla è quello che vorrei diventare per poi restituire me stessa al Tempio, inteso non tanto come edifico, luogo fisico (anche se per me la Sinagoga di Roma è il luogo per eccellenza), quanto come un luogo spirituale universale, un luogo di conciliazione e di non-esclusione.


3. In uno dei suoi racconti "Opus Dei" lei esprime attraverso la protagonista un atteggiamento ambivalente nei confronti delle modalità di relazione della società italiana contemporanea. Per esempio, per superare le obiezioni di un impiegato di banca riguardo alla richiesta di restituzione di una tessera inghiottita dal terminale del bancomat, la donna decide di chiedere l’intervento di un parente perché "la famiglia è l’unica istituzione che funziona in Italia" per poi poco dopo chiedersi "Perché in questo paese nessuno si prende le sue responsabilità?". Dopo qualche altra battuta la protagonista si chiede come mai una persona "totalmente inadatta alla vita" come lei abbia avuto il coraggio di mettere al mondo dei figli. Ci può parlare di queste sensazioni "oscure", di questo senso di inadeguatezza, nella coscienza di una donna di oggi?

Anche in questo racconto ho cercato di rendere in modo un po’ grottesco, un po’ caricaturale, l’infinta serie di intoppi, di incidenti quotidiani, uno stillicidio di ostacoli inutili e assurdi che ci distraggono costantemente dalle cose importanti imponendoci relazioni che non scegliamo e che influenzano in modo determinate la qualità della nostra vita. Una donna che ha una figlia adolescente che decide di iscriversi a un corso di giapponese, dovrebbe semplicemente stare lì a bearsi del successo educativo conseguito: ha una figlia in cerca di stimoli forti, di sfide e, incredibilmente, li cerca sul piano culturale e su un piano culturale molto raffinato. Oppure dovrebbe star lì a dire alla figlia quanto è fiera di lei, quanto condivide i suoi interessi, che, se potesse, si iscriverebbe pure lei al corso di giapponese; dovrebbe avere l tempo di passare in rassegna, con la figlia, tutte le opportunità che si aprono in conseguenza di una scelta del genere. Invece, ecco che i mezzi pubblici non funzionano, il luogo dell’esame diventa irraggiungibile, l’ansia di non fare in tempo a causa del traffico sovrasta tutto, il tentativo di comprarsi un paio di occhiali in farmacia per ingannare l’attesa leggendo un po’ magari seduta in pasticceria a sorseggiare un tè si rileva una fonte di ulteriore ansia, contatti umani coatti e indesiderati, di nuovo paura di non fare in tempo … Ritengo veramente che i tempi e i valori che ci vengono imposti siano stupidamente distruttivi. Soffocanti.


4. Lei sostiene che "a volte il senso di perdita precede addirittura la perdita" producendo uno sgomento, un senso di colpa, che ci portiamo dentro da epoche ancestrali a causa della perdita dell’Eden. Può sembrare un punto di vista "eretico" per certi versi: nell’uomo ci sarebbe la divinità primigenia decaduta per sua colpa, per dirla alla Jean Cocteau malheureuse par sa faute, e, contemporaneamente, la sensazione, il senso di ciò che abbiamo perso, cioè l’Eden. Abbiamo diritto al Paradiso, sia esso in terra o altrove?

Vorrei veramente congratularmi con Lei per questa domanda. Vede, il racconto biblico è stato scritto dopo moltissimi anni in cui è stato tramandato oralmente. La prima cosa che mi preme sottolineare è che da sempre l’umanità si è "raccontata", ha raccontato se stessa a se stessa, prima oralmente e poi per iscritto. Io credo che gli uomini, man mano che evolvevano spiritualmente ed eticamente e acquistavano il senso dell’importanza e dell’unicità, irripetibilità, della propria vita, si chiedessero con sempre più forza perché gli toccava nascere se poi bisognava certamente morire. Leggendo il Genesi, mi sembra di capire che il timore di Dio abbia inibito agli uomini che hanno raccontato la Creazione di addossare al Creatore questa contraddizione, preferendo ascriversi una semi-scelta: non sapendo bene quali sarebbero state le conseguenze, la coppia primigenia ha scelto di mangiare il frutto dell’Albero del Bene e del Male. La coppia primigenia ha scelto di affrontare anche il Male. Il Male, la lontananza dal Signore, il ciclo vita-morte. Se Adamo ed Eva non avessero scelto di non obbedire, la realtà in cui il Signore li aveva adagiati sarebbe stato il Gan Eden, l’assenza di morte. Secondo me è in questa dimensione psicologica a-temporale (eterna, nonostante la mortalità degli umani) che si saldano senso di colpa e dolore della perdita. La perdita fa male nella misura in cui il nostro pensiero va a cercare il punto in cui "si poteva evitare": dove ho sbagliato? Cosa non ho fatto per evitare a me stesso questo dolore? Ho conosciuto molto da vicino persone che, dopo la morte di un caro per malattia, rimaneva per mesi, per anni, devastate dal senso di colpa di non aver insistito per far fare determinate analisi cliniche, non aver proposto determinati interventi chirurgici, non aver insistito per cambiare medico o struttura sanitarie, ecc. Gente intelligente e colta, ma devastata dal senso di colpa e di impotenza di fronte a una perdita che non si è saputo/potuto evitare.






6. La protagonista di un altro dei racconti di "La perla nel tempio", Giulia, raccontando come è nata in lei l’ossessione per la sua dentatura, ci parla di un sogno di gioventù che è quello di andare in Israele a visitare un kibbutz. Che cosa rappresenta per una persona dei tempi nostri, che vive in una città multietnica e cosmopolita come è Roma, il viaggio di riscoperta della tradizione con la quale cercherà invano di ricongiungersi?


5. Che ruolo dovrebbe avere secondo lei il giornalista in una società in cui, come lei stessa dice, non solo bisogna avere delle buone idee ma anche la forza di imporle?


Sono cresciuta con il mito del Giornalismo. Da ragazzina, i giornalisti erano i miei eroi. Parlo dei tempi di Epoca, l’Europeo, parlo di Oriana Fallaci e di Luca Goldoni. Di Arrigo Levi e di Alberto Ronchey. E di infinti altri che hanno fatto veramente parte della mia vita, della mia formazione, al pari dei grandi scrittori. Parlo di quando il giornalismo italiano era considerato tra i migliori del mondo, forse il migliore in Europa. Credo che la professione del giornalista debba imporre l’idea che l’informazione la può fare (la fa) solo chi impone, a sua volta, a se stesso l’assoluto rispetto per chi legge. Il giornalista ha la responsabilità di scegliere quali fatti offrire al lettore per permettere al lettore di farsi un’opinione in merito ai fatti e non per impedirglielo. Ossia: il giornalista dove rifiutarsi di truffare il lettore tramite un’informazione "sponsorizzata" e deformata. Quello che lo scrittore si può consentire (portare il lettore lontano dalla realtà quotidiana, in una realtà creata per lui dallo scrittore) il giornalista non può. Ritengo che il giornalismo, in Italia, stia toccando il punto più basso della sua storia perché è esclusivamente manipolatorio e gravemente omissivo. E’ inevitabile che, facendo giornalismo, si accumulino infinite nozioni sulle cose che non funzionano, sui meccanismi che portano a gravi omissioni e disservizi, sulle persone "che contano" e sul loto modo di gestire la Cosa Pubblica o gli affari. E’ inevitabile che una profonda conoscenza dei meccanismi della realtà producano, nei giornalisti che sono anche persone di spessore, la non acquiescenza e quindi la voglia di suggerire dei correttivi, di aggiungere mezzi di informazione corretta ai mezzi che già ci sono, di fornire anche il lettore degli strumenti per cambiare la realtà, una volta che gliene vien data un’immagine onesta, e i lettore decide che la realtà deve cambiare.

Per Giulia, la dentatura è il legame con il padre, il padre che voleva che lei avesse una dentatura perfetta (che lei fosse perfetta: ma sulla totalità di Giulia il padre non poteva decidere al 100 per cento, invece sulla sua dentatura sì) e aveva speso tanto tempo e denaro per raggiunger questo scopo. Quando il padre si ammala i denti di Giulia si ammalano, quando il padre muore i denti di Giulia muoiono e cadono. A quel punto Giulia recupera un rapporto fondamentale: il medico che sceglie è il suo migliore amico, incontrato quando aveva tanti sogni (tornare all’ebraismo, crearsi una famiglia ebraica, andare in Israele a vedere come è fatto un kibbutz, ma soprattutto a vedere con i propri occhi il riscatto del popolo ebraico che ha rischiato l’annientamento). L’amico aveva avuto, a suo tempo, un ruolo fondamentale nella realizzazione del sogno di Giulia di andare a vedere com’è organizzato un kibbutz. L’amico è il segno che Giulia può ancora avere dei sogni e la speranza di realizzarli. E quindi, il legame riannodato col suo dentista e medico/miglior amico ed ebreo è esattamente il simbolo della speranza di Giulia che i suoi sogni possano ancora avverarsi. Roma e Israele hanno un legame storico importantissimo: e questo legame è un altro dei punti fondamentali della mia formazione. E’ un legame politico ed è l’influenza che il Risorgimento (e in particolare il pensiero di Giuseppe Mazzini) ha avuto sul Sionismo politico. Quanto al cosmopolitismo della Roma dei nostri giorni, bisogna dire che Israele è un luogo antichissimo e nuovissimo, di cui nessuno, tranne quelli che ci sono stati, sa niente. In Israele vestigia millenarie convivono con i grattacieli e la tecnologia più avanzata, è un luogo in cui c’è il massimo del cosmopolitismo possibile, in cui si sono riversati gli ebrei di ogni nazionalità e provenienza: europei (italiani, francesi, belgi, inglesi, tedeschi, svizzeri, rumeni, ecc.), americani (canadesi, venezuelani, brasiliani, argentini) turchi, russi, nordafricani (algerini, tunisini, marocchini, libici, siriani, libanesi), yemeniti e iraniani, africani (eritrei, etiopi), giapponesi, indiani, australiani. Nelle diverse epoche, alcuni per scelta, altri travolti dagli eventi, fuggiti dalle persecuzioni, dall’essenza di libertà religiosa, dal rischio di restare schiacciati dalle guerre civili. In Israele ci sono bambini che parlano 9 lingue: quelle di ciascun nonno più l’ebraico. Non c’è nulla di più cosmopolita e complesso di Israele, in tutti i sensi. Israele è nato così, non è diventato così. Mentre Roma, quando io ero ragazzina, era solo dei romani, adesso è il trionfo dei Palazzi del Potere e delle auto-blu. Roma non è più una città, è un problema amministrativo. E’ molto difficile, per una persona della mia età, accettare quello che è diventa Roma. Infatti, penso che appena possibile me ne andrò a vivere in campagna.



7. Lei ci parla della cucina ebraico-romanesca che, come la lingua giudaico-romanesca riscoperta di recente in ambito teatrale, sembra riscuotere nuovi successi di gusto. Siamo nell’era che il sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman aveva chiamato della "società liquida", dove non ci sono più regole forti e in cui tutti i rapporti, per primi quelli di lavoro, diventano precari e perfino la famiglia fa fatica a sopravvivere vittima com’è di impulsi allocentrici. E tuttavia abbiamo veramente bisogno di radici stabili?

Non credo che abbiamo bisogno di radici stabili in senso limitativo, tutt’altro: abbiamo assolutamente bisogno di esser aperti e disponibili al cambiamento, alle esperienze, agli altri, a ciò che non conosciamo. Quello di cui abbiamo bisogno è avere il coraggio di scegliere fino in fondo quello che vogliamo essere, non accettare identità imposte; e, soprattutto, dobbiamo difendere quello che siamo. Può sembrare una contraddizione, e forse in termini puramente logici lo è, ma le due cose devono convivere: apertura e identità devono stare insieme, anche perché non c’è l’una senza l’altra.


8. Quale empatia può esistere per l’uomo nei confronti dei propri simili quando subisce una perdita a causa di altri uomini o di un sistema fuori della portata del singolo individuo, come succede oggi, per esempio, con il mercato finanziario?

Quello che sta succedendo a causa del sistema finanziario lo trovo di una gravità spaventosa. E’ disumano, non trovo altre parole. Non ci sono scuse per chi ha messo in piedi un sistema violento, rapace, che espropria ricchezza ai cittadini per sopravvivere dopo che ha fallito. E’ terribile quello che sta succedendo. E’ un incubo a occhi aperti. Ci dicono che tutto questo avviene perché gli Stati hanno venduto i loro debiti. Ma, dico io: se uno Stato vende i propri debiti (e deve dimostrare ai cittadini che loro gli hanno dato consapevolmente il permesso di farlo – e qui ci riallacciamo la problema dell’informazione che non informa - ) , mi pare ovvio che si metti nelle mani di chi li compra. Allora, un conto è se dai a chi ha comperato parte del tuo debito sovrano solo il potere sul valore economico dello stesso debito, un conto è se attraverso il potere sul valore economico del debito dai ai creditori anche il potere di decidere la politica del tuo Paese e della vita dei suoi cittadini! Io ho sempre fatto politica attiva, a parte una pausa all’epoca in cui vivevo all’estero e le mie figlie erano molto piccole. Ho sempre militato in un’area laica di centro, assolutamente favorevole all’Unione Europea come aspirazione, ma, grazie al fatto di annoverare tra le proprie fila dei bravi economista, da sempre, da parte dell’area politica alla quale appartengo, è partito forte e chiaro il messaggio che l’Unione Europea non poteva vivere di sola unità monetaria: doveva assortamente avere un Politica monetaria comune. Invece, abbiamo avuto l’Europa dei Banchieri, con questi vecchi tromboni abbarbicati alla "stabilità", ai "tassi", ai mezzi punti in più o in meno dei tassi, vecchi tromboni che hanno un potere immenso senza che nessuno di noi li abbi mai votati. Non sa cosa augurarmi perché non è nel mio carattere auspicare che si torni indietro, buttando anni a miliardi. Ma certo, siamo caduti in mani pessime. Ci serva da lezione per il futuro.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 23 e 27 Novembre 2011. Pubblicata su:
http://www.paroleefotografie.blogspot.com/



SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: La perla nel Tempio
Autore: Alessandra Pontecorvo
Editore: GDS Edizioni
Data di Pubblicazione: Marzo 2011
Collana: Miscellanea
ISBN: 9788896961803
Pagine: 174
Formato - Prezzo: Brossura - 14,00 Euro

sabato 12 novembre 2011

Intervista a Maurizio De Vito, autore di “Io sono il nuovo povero”, raccolta di poesie in prosa

a cura di Stefano di Stasio



Dalla poesia "Gli occhi del povero" contenuta nella raccolta di Maurizio De Vito:

Gli occhi del povero,
sono pieni di lacrime
che bagnano i cuori
sia per la gioia
che per il dolore,
e la speranza lo salva
dal buio della notte.
La notte,
che devo sconfiggere
tutti i giorni,
tenendo lontane,
le paure e le insicurezze
di un’esistenza
difficile, precaria, ingiusta…


      
1. Maurizio può descrivere come nasce "Io sono il nuovo povero"?

"Io sono il nuovo povero" è il seguito del mio primo libro autobiografico "Non smettere mai di sognare" dove io stesso mi riconosco in questa nuova figura sociale. A differenza del povero tradizionale che siamo abituati a vedere dormire sulle panchine dei parchi, con i panni sporchi e la barba lunga, egli lotta quotidianamente per arrivare a fine mese. Colui che ha il privilegio di non dormire sulle panchine , ma lo svantaggio di dover vivere affrontando da solo, nell’estraneità totale del mondo che lo circonda, il dramma e la sofferenza della sua condizione. Spesso, il nuovo povero è il vicino della porta accanto che facciamo finta di non vedere. La motivazione principale che mi ha spinto a scrivere il libro è stata la necessità di esternare le emozioni e i sentimenti repressi, frutto di una condizione di disagio notevole.


2. Lei esprime il concetto di viaggio nella quotidianità. Esistono delle abitudini, come quando siede sempre nello stesso posto in un treno di pendolari, ma ciò che rende diverso ogni giorno dai precedenti è la sua dimensione interiore, il suo animo che recepisce nuove emozioni. Secondo lei che ruolo hanno gli incontri con il prossimo, con i nostri simili in questo percorso personale?

La povertà e la nudità interiore ci vengono poste innanzi nelle situazioni di grande disagio. Allora, prendiamo coscienza della nostra fragilità e dei limiti che teniamo nascosti persino a noi stessi, per paura di incontrarli faccia a faccia. Impariamo a confidare in quel Dio che si è fatto povero per arricchire tutti noi con la sua povertà. In questo percorso dopo aver incontrato noi stessi , siamo pronti ad incontrare il prossimo. Ogni giorno un’emozione nuova, che ci fa vedere il mondo con gli occhi dell’umanità, dove il prossimo ci respira di fianco , come quando seduti in uno scomparto del treno veniamo tutti indistintamente illuminati dalla luce dello stesso cielo.


3. Ha scritto: Una fotografia / di ciò che gli occhi osservano, / la ragione elabora, / i sentimenti assimilano. Benvenuti nell’inferno. Ci può parlare dell’inferno che oggi è sotto gli occhi di tutti?

L’inferno è quando la mattina, come tutte le altre mattine ti suona la sveglia alle 6.30, tu ti alzi, prepari il caffè, ti affacci fuori la finestra per dare un’occhiata al tempo, poi ti accorgi che non devi andare a lavorare, prendendo coscienza che se va avanti così, oggi è uguale a domani e domani sarà uguale a dopodomani. L’inferno è quando nei crocicchi delle strade e delle metropolitane, la gente dorme avvolta dai cartoni senza dignità. L’inferno è l’immagine triste della miseria, che arriva al cervello e si riflette nel cuore dell’uomo, mentre l’automobile di lusso ci attraversa la strada senza nemmeno rallentare la sua frenetica corsa. L’inferno è un mondo che sta trascurando sempre più il sentimento della "Compassione", che nasce dall’empatia dell’immaginarsi al posto dell’altro, dal pensare che ciò che sta soffrendo lui potremmo patirlo anche noi.


4. L’impressione che si prova, leggendo "Io sono il nuovo povero" è quella di un laboratorio di studi sociali a cielo aperto. Nel libro si alternano scritti dal taglio poetico a fotografie e commenti. Questo formato di esposizione rappresenta un esperimento di comunicazione sociale. Qual è il ruolo delle tre modalità espressive, di scritto emozionale, di cronaca razionale, di immagine nella sua visione globale del mondo che la circonda?

Respirare la propri vita a pieni polmoni e poter aprire gli occhi ogni mattina per guardare tutto ciò che ci circonda nella semplicità più assoluta. Saperla descrivere con altrettanta semplicità senza però trascurarne i lati oscuri, quelli che la nostra società a volte cerca di nascondere. Allora dove non arriva la parola, deve arrivare l’immagine e, se anche quest’ultima non è sufficiente, proveremo con la poesia fino a toccarne il sentimento, emozionandoci sempre e comunque sia che siamo scrittori, poeti o solamente persone… come me.


5. Lei non si definisce né uno scrittore né un poeta, eppure, ammette di descrivere emozioni e cita come sottotitolo del suo lavoro "Raccolta di poesie in prosa". Dice anche che queste emozioni colorano la vita e alimentano le speranze. Là dove riusciamo a materializzare una prospettiva, anche remota, superiamo la paura di vivere. Possiamo parlare di un percorso di ribellione dello spirito nella sua opera?

È sicuramente una presa di coscienza, dove attraverso un percorso anche spirituale l’uomo raggiunge la sua rinascita scavando all’interno della propria anima, e ritrovando la forza di liberare tutte le sue capacità, passioni, talenti, che rimangono sepolti dalle macerie della sofferenza. Mi piace più definirla , almeno nel mio caso una rinascita dello spirito.


6. Qual è il legame fra la speranza, che lei auspica per i "nuovi poveri", e il valore della dignità che legittimamente dovrebbe essere parte del sentire dell’uomo?

Se non si riesce a dare dignità alle persone, allora non c’è futuro per la nostra società. La speranza di una vita dignitosa, oltre ad essere un augurio, vuole essere un messaggio forte al mondo intero, che concedendo troppo spazio alla globalizzazione economica e comunicativa trascura sempre più le vere priorità dell’essere umano. La speranza è la forza trainante della nostra vita ed è profondamente legata alla sua stessa dignità.


7. Le confesso con ammirazione personale che il vissuto che lei descrive assume a volte tratti di leggenda, di vero e proprio eroismo dei giorni nostri. Che cosa può raccomandare o comunicare un padre di due figli come lei ai figli distratti della nostra epoca di angosce?

Come ogni notte, mi alzo dal letto e rimbocco le coperte ai miei figli che dormono sereni, nonostante tutto, lasciando la loro stanza con una preghiera tra le labbra. Ho un profondo legame con le parole di questa poesia: "Gli occhi del povero", perché racchiude un momento di quella quotidianità che le dicevo pocanzi. Rappresenta un momento di forte preoccupazione dove un padre soffre in silenzio rivolgendosi con una preghiera verso un Dio che ascolta le sue preghiere. Le ascolta in un momento forte, in un silenzio assoluto, attraverso una finestra che si apre nel cielo infinito. I nostri figli hanno bisogno di adulti migliori, quelli che devono dare loro l’esempio giusto, quelli che devono raccontarsi di generazione in generazione senza creare il vuoto lasciandosi dietro i valori importanti della nostra esistenza. I nostri figli hanno il diritto e il dovere di comprendere il vero senso della vita.


Il libro di Maurizio De Vito è disponibile su:
http://ilmiolibro.kataweb.it/

 
© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 6 e 10 Novembre 2011. Pubblicata su:
http://paroleefotografie.blogspot.com/


Gli autori di raccolte di racconti e antologie fotografiche che fossero interessati a una recensione possono contattarmi all’indirizzo e-mail:

stefano.distasio1600@gmail.com

martedì 8 novembre 2011

Continua: Rassegna stampa - "Del seme più forte"

ART-LITTERAM / Libera Rivista Telematica
Recensione a "Del seme più forte" di Cinzia Baldini, 8 Gennaio 2012.
Il link:


TELEPRIMA
Trasmissione "Libri in redazione", intervista a cura di Maria Beatrice Crisci, Sabato 29 Ottobre 2011 ore 15:30



BEST SELLER E AUTORI EMERGENTI: una selezione dei libri del momento.
Rubrica Libri in Evidenza di RecensioniLibri
http://www.recensionilibri.org/in-evidenza

 


...Ho letto il tuo libro in pochi giorni. Ne ammiro innanzitutto la peculiare capacità descrittiva, anche su particolari che sfuggono in genere alla nostra attenzione. Ne viene fuori un senso di precarietà della condizione umana in anni nei quali sembrano venir meno certe sicurezze e punti di riferimento importanti del passato, mentre una tecnologia sempre più avanzata e funzionale tende purtroppo a volte a condizionare e persino bloccare la nostra vita abituale. L'amicizia profonda tra persone può costituire un modo efficace per contrastare la transitorietà e le incertezze molteplici delle nostre effimere esistenze, mentre l'amore, l'incontro non appaiono certi e capaci di garantire un futuro…
Dante Iagrossi


…Scene di ordinaria quotidianità che lasciano una traccia profonda quanto la consapevolezza di vivere in una società malata di noi stessi! Una raccolta di racconti in cui il tema dominante è il genere umano e il bisogno d'imporsi a ciò che è irrimediabile…
Carmen Moccia, Scrittrice



IL CAFFÈ – Settimanale indipendente. Anno XIV n. 37 del 4 Novembre 2011

Un libro di quattordici racconti e altrettante foto in bianco e nero a testimoniare, in parallelo, un percorso di ricerca di senso. Di facile lettura, il libro procede con leggerezza ad affrontare, attraverso l’esperienza del proprio vissuto, aspetti della quotidianità, i cui attori sembrano mine impazzite senza più ancore di salvezza...
…La raccolta dei quattordici racconti di Stefano di Stasio, legati dal fil rouge della memoria, costituisce un campionario di esperienze, nelle quali si può riconoscere ciascuno di noi e che ci pongono interrogativi circa il senso della vita e il non senso di molte nostre nevrosi, che come fantasmi ci perseguitano nel segno dell’imprevedibilità, incrinando le nostre certezze …

Articolo di Ida Alborino, Docente e Giornalista


Intervista con l'autore sul sito Recensioni Libri
Che cosa intendi per "immagini di parole" ?
È un concetto che ho introdotto fin dal mio primo lavoro "Storie di uomini, donne e animali" anche quella una raccolta di racconti e fotografie del 2008. Quello che mi affascinava e volevo proporre come linguaggio, era una scrittura essenziale, non prolissa, che fosse in grado di comunicare al lettore le emozioni nello stesso modo diretto in cui una fotografia trasferisce all’osservatore una sensazione o una informazione "globale". Quello che non possiamo né descrivere né trasferire facilmente a volte sono le nostre emozioni, proprio la parte irrazionale del nostro vissuto. Da un punto di vista un po’ cinico, siamo incapaci di descrivere il meglio e il peggio dell’essere umano. Sentimenti comuni, amore, odio, perfidia e generosità, tradotti nelle conversazioni della vita quotidiana, diventano ridicoli. Dei fantasmi, pantomime dell’assurdo che, purtroppo, a volte rovinano la vita. Ho riproposto questa impostazione anche nel mio secondo lavoro "Del seme più forte" e nel mio blog in rete "Parole e fotografie" che rappresenta un laboratorio per lo sviluppo combinato dei due linguaggi…

lunedì 31 ottobre 2011

Rassegna stampa - "Del seme più forte"



SABATO NON SOLO SPORTIVO
Direttore Responsabile Vincenzo Di Nuzzo – 22 Ottobre 2011

 
 

TELEPRIMA
Trasmissione "Libri in redazione" a cura di Maria Beatrice Crisci, Sabato 29 Ottobre 2011 ore 15:30
http://www.teleprima.it/



CASERTANEWS

Pane e Paradossi - Intervista all'autore, rubrica "Letto e Bloggato"
…Cortàzar, in un saggio dedicato al racconto, paragona quest’ultimo alla fotografia, in quanto deve circoscrivere e dettagliare per far apparire significativo ciò che narra e nei quattordici racconti che compongono "Del seme più forte", ognuno introdotto da un’immagine fotografica, l’autore Stefano di Stasio riesce a armonizzare efficacemente queste due arti della sintesi. Quattordici brevi e attenti viaggi che svelano la meccanica umana miscelando destini e impressioni, incontri e separazioni attraverso personaggi comuni, ma mai prevedibili o scontati, imbrigliati nelle spire di una società affogata in un’ ottusa e ottundente burocrazia…

Il testo completo della recensione e dell’intervista all’autore sono al link: http://paneeparadossi.netsons.org/?tag=trama-del-seme-più-forte


Recensioni Libri
…Come in un confronto impossibile tra mondi opposti, dalle disavventure di un uomo che si imbatte nella burocrazia si passa ai funerali indù sulle pire lungo un affluente del Gange e alla spiritualità del Nepal…

La recensione completa al link:
 www.recensionilibri.org/2011/10/del-seme-piu-forte-una-raccolta-di-racconti-e-di-istantanee-di-vita.html


Recensione Libro
…"Del seme più forte" di Stefano di Stasio raccoglie quattordici istantanee della vita di tutti i giorni. Quattordici incontri in cui viene messa in mostra come i gesti più semplici ai quali andiamo incontro ogni giorno, possono complicarsi fino a renderci impossibile la vita…

Il testo completo è riportato al link:
 
www.recensionelibro.it/del-seme-piu-forte-stefano-di-stasio.html


Tania Maffei
Ho letto tutto d’un fiato "Del seme più forte". È difficile non restare impigliati nella rete di questo scrittore-fotografo che sa descrivere la realtà che lo circonda fotografandola delicatamente come fa nelle sue foto. Stefano di Stasio ha la grande capacità di cogliere i dettagli anche minimi che la maggioranza di noi non riesce a vedere e che lui immortala sulla carta stampata dopo averli già probabilmente impressi sulla pellicola fotografica. Questo scrittore è anche uno scienziato e si sente nella scelta che fa delle storie che racconta ma è anche un uomo meridionale la cui mente è ancora imbevuta di riti pagani e di antiche superstizioni che non sa e non vuole abbandonare. Nelle sue storie il vecchio si mescola con il nuovo. I viaggi che lo portano lontano da casa sono un modo per ricevere nuove ispirazioni che troveremo nelle altre storie più casalinghe dove ognuno di noi può ritrovarsi nel vivere quotidiano di un’italietta che ormai ci lascia, giorno dopo giorno, sempre di più sgomenti e senza parole.

www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-di_stasio_stefano/isbn-9788848812856/del_seme_piu_forte.htm


Scrittori Modenesi - Scheda

DEL SEME PIÙ FORTE" Autore: Stefano di Stasio Edizioni/Print-on-demand: Lampi di Stampa, Agosto 2011

PERCHÉ
A volte mi sveglio durante la notte. Ripenso a quanto mi succede durante la vita, ogni giorno. Mi prende un senso di oppressione e insieme di rabbia. Penso che tutto quello che potrò fare o disfare per i miei figli sarà inutile. Che non servirà a niente. Che in un giorno non tanto lontano, forse è già oggi, non ci saranno più regole. Che hanno preso la nostra terra e anche la nostra mente. Che vaghiamo impazziti nella notte dell’uomo cercando di divorarci a vicenda. Mi chiedo perché adesso, nel ventunesimo secolo delle società "avanzate", non hanno più senso parole come eroe, uomo, padre, madre, onore, leggenda. Perché la morte ci fa paura e tante altre cose no. Mi domando se si possa ancora pregare, guardare nell’animo di sé stessi e degli altri senza avere lo scopo di truffare, massacrare, violentare.
CHI
Stefano di Stasio, un nome, una famiglia come tante
CHE COSA
Un libro di quattordici racconti e quattordici foto in bianco e nero scattate dallo stesso autore, prodotto con un print-on-demand. È un lavoro di ricerca. Segue la strada del linguaggio nei racconti. In parallelo, quella dell’esplorazione fotografica. La domanda che pone e che si pone è se ancora esiste nelle società del liberismo selvaggio la possibilità di garantire un’esistenza dignitosa per i propri figli.
DOVE
In giro, cercando di osservare senza fretta
QUANDO
Nel corso di anni di esplorazione
COME
L’uomo appartiene alla terra. Guardo le strade, gli aeroporti, le piazze e vedo schegge impazzite di umanità che rimbalzano come palle di biliardo su bancomat, supermercati, carte di credito, tasse e bollette. Appassito lo sguardo e annebbiata la vista. Il cuore batte su pantomime di "amori" che finiscono come l’abbonamento al parcheggio o alla metropolitana. La dignità si spegne in un vortice di eventi che si succedono senza posa, annullando la percezione. La cosa più naturale che provo è la fame e la sete. Volgo lo sguardo sugli animali, quelli che non abbiamo ancora sterminato. Pensiamo che siano stupide bestie, siamo certi di essere padroni del mondo. Invece no. Perché un’ape, o un corvo o un gatto hanno sempre dignità. Prendono dal mondo ciò che è necessario, nemmeno un filo di più. Non usano il denaro, i bancomat, le carte di credito. Vivono di vento nel vento, subendo l’alternarsi delle stagioni. Imparano a sopravvivere. Questo è "Del seme più forte".

http://www.scrittorimodenesi.it/index.php?option=com_zoo&view=frontpage&layout=frontpage&Itemid=139



Schede del libro su altri siti
http://www.braviautori.com/
http://www.nonsolomanoscritti.com/


Reperibilità:
Caserta - Libreria Mondadori, Corso Trieste 247
S. Maria Capua Vetere - Libreria Spartaco Interno 4, Via Martucci 18

internet: IBS, HOEPLI
http://www.ibs.it/ser/serfat.asp?site=libri&xy=stefano+di+stasio